giovedì 28 novembre 2013
I dirigenti del Partito Democratico brindano alla decadenza dal Senato di Silvio Berlusconi e ripetono come un mantra ossessivo che il voto contro il Cavaliere ha segnato la fine del ciclo berlusconiano. Ma il rituale di autoconvincimento a cui ricorrono per giustificare a se stessi di aver voluto ad ogni costo intestarsi l’“esecuzione” del nemico storico impedisce loro di comprendere che la fine del ciclo parlamentare di Berlusconi non coincide affatto con la fine del suo ciclo politico.
E che, anzi, proprio la loro scelta di non attendere una decadenza che sarebbe comunque stata decisa dalla magistratura ma di bruciare le tappe della pubblica liquidazione dell’avversario interrompe il ciclo parlamentare ma allunga a dismisura il ciclo politico di Silvio Berlusconi. Matteo Renzi, che non a caso si pone come alternativa alla vecchia nomenklatura del Pd, sembra essere l’unico ad averlo capito. Per lisciare il pelo alla base della sinistra carica del livore giustizialista che le è stato inoculato per alcuni decenni, non si è dissociato dalla linea della intransigenza assoluta sulla cacciata dal Senato del Cavaliere.
Ma oggi è il solo ad ammonire la sinistra a non immaginare che con Berlusconi fuori da Palazzo Madama la prossima campagna elettorale sarà una marcia trionfale verso una vittoria scontata. Perché estirpando il leader di Forza Italia dal terreno parlamentare i dirigenti del Pd lo hanno catapultato su quel terreno elettorale che il Cavaliere predilige e su cui da vent’anni a questa parte riesce sempre a dare il meglio di sé, con risultati sempre al di sopra di ogni previsione. È probabile che a sinistra si coltivi la convinzione di poter contare su qualche aiuto ulteriore da parte di qualche procura o pubblico ministero in cerca di notorietà e trampolino per il salto in politica.
Ma chi nutre questa convinzione e spera che alla decadenza ed ai servizi sociali possa seguire quell’arresto che lo stesso Berlusconi dice di temere, non capisce che un avvenimento del genere, definito irreale dall’avvocato Coppi, provocherebbe una spaccatura insanabile nel Paese e fornirebbe una spinta irrefrenabile alla prosecuzione del ciclo politico berlusconiano inteso come ciclo di un blocco sociale che si riconosce in un leader.
La decadenza forzosa, in sostanza, come dimostrano i sondaggi di questi giorni, libera Berlusconi e Forza Italia dalla camicia di forza delle larghe intese e li mette nella migliore condizione di partire in una campagna elettorale che potrà anche durare fino al 2015 (sempre che nel frattempo la decisione di liquidare il governo precario delle piccole intese non venga presa da Matteo Renzi) ma che ha come prospettiva non la semplice sopravvivenza ma, addirittura, la riconquista della maggioranza ed il ritorno al governo del Paese. Ciò che cambia con la decadenza che espelle Berlusconi dal Senato e lo manda all’opposizione nel Paese è proprio la prospettiva verso cui si può muovere il centrodestra.
Fino a ieri sembrava destinato ad assumere un ruolo marginale in un quadro politico segnato dal preannunciato trionfo di Renzi e della sinistra. Da adesso in poi, con un maggioranza di governo destinata ad essere logorata dall’incapacità di risollevare il Paese dalla depressione, può tornare legittimamente e ragionevolmente a puntare a tornare ad essere l’alternativa liberale alla sinistra recuperando anche quella parte di elettorato finita a suo tempo con Grillo e delusa dal fallimento di quella esperienza. Tutto questo anche con un Berlusconi incandidabile ed ineleggibile? Certamente sì. Perché non è la poltrona parlamentare che fa un leader, ma è la sua capacità di interpretare e rappresentare i sentimenti e gli interessi della parte di società che lo considera la propria bandiera.
di Arturo Diaconale