La strada di Renzi come quella di Veltroni

sabato 23 novembre 2013


Anche i ciechi cominciano a vedere che la mina principale posta sotto il governo di Enrico Letta non è quella di Silvio Berlusconi, ma quella di Matteo Renzi. Il Cavaliere, con la sua sicura uscita dalla maggioranza a causa dell’insoddisfazione per la legge di instabilità e della legittima reazione all’aggressione del Partito Democratico sulla decadenza da senatore, è destinato a rendere molto più debole la maggioranza.

Non solo per una questione di numeri ma per la semplice ragione politica: la formula delle larghe intese diventa la formula delle intese ristrette e trasforma il governo di necessità in governo di precarietà. E la circostanza, a dispetto di chi sostiene la tesi di Renzo Arbore applicata alla politica del “meno siamo, meglio stiamo”, appende la sopravvivenza dell’Esecutivo al filo della massima imponderabilità. Matteo Renzi, invece, è destinato a dare il colpo di grazia al governo di Enrico Letta, reso precario dalla scissione del Popolo della Libertà e della trasformazione della natura politica della coalizione governativa. Chi pensa che il sindaco di Firenze sia un simpatico sbruffone privo di qualsiasi progetto compie un errore marchiano.

Perché Renzi ha in testa una strategia ben precisa che non nasce solo dall’ambizione personale di usare la segreteria del Pd come trampolino di lancio verso il governo del Paese, ma che poggia anche sul disegno politico di consolidare il sistema bipolare e rilanciare la cosiddetta “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria del Partito Democratico. Non sbagliano, allora, quanti per screditare il sindaco di Firenze lo dipingono come un berlusconiano di sinistra. Perché se essere berlusconiano significa essere bipolarista, Renzi lo è in maniera dichiarata e sicura. E nell'essere schierato a favore della democrazia dell’alternanza, il probabile e prossimo segretario del Pd è automaticamente un oppositore irriducibile sia alla formula delle grandi intese che a quella delle intese ristrette oltre che essere, necessariamente, il più convinto sostenitore della vocazione maggioritaria del proprio partito.

Suo malgrado, allora, Enrico Letta, capo di un governo espressione di una formula alternativa a quella dell’alternanza di governo, è destinato a finire nella morsa degli opposti bipolaristi. Da un lato Berlusconi, che però con la scissione degli alfaniani può indebolire ma non far cadere la coalizione governativa. Dall’altro Renzi che nella prossima qualità di segretario del Pd, cioè del partito divenuto cardine dell’attuale Esecutivo, è destinato a diventare l’unico in grado di mettere la parola fine al tentativo in atto di riesumazione degli equilibri politici della Prima Repubblica.

In questa luce la strada del sindaco di Firenze appare molto simile a quella che precedette e seguì l’elezione di Walter Veltroni a segretario del Partito Democratico. In nome della vocazione maggioritaria del Pd Veltroni entrò in rotta di collisione con Romano Prodi, presidente del Consiglio di un governo ulivista, cioè fondato sull’alleanza tra le diverse forze della sinistra. E non appena eletto segretario pose fine al governo prodiano per andare ad elezioni che portarono il Partito Democratico a diventare la forza egemone della sinistra.

In nome della stessa vocazione maggioritaria, Matteo Renzi sarà fatalmente costretto a decretare la fine del governo delle strette intese di Enrico Letta ed a giocare la carta di elezioni anticipate in cui punterà a diventare Premier alla guida di un partito proiettato a tornare egemone nella sinistra cercando di recuperare almeno una parte dei voti andati al Movimento Cinque Stelle. Il bipolarista Veltroni conquistò il 33 per cento, ma perse con il bipolarista Berlusconi. Renzi spera di sfuggire a quella sorte contando sulla decadenza e la liquidazione per via giudiziaria del Cavaliere. Ma deve fare i conti con il bipolarismo e la capacità di resistenza di Silvio l’irriducibile!


di Arturo Diaconale