mercoledì 13 novembre 2013
L’intervento di Giovanni Orsina su “La Stampa” del 3 novembre ha il merito in indicare con precisione i tre dilemmi su cui si giocano l’identità e il futuro del centrodestra in Italia: bipolarismo, rivoluzione liberale, rapporti con l’Europa. Purtroppo, nel principale partito di centrodestra, il Popolo della Libertà, sembra essere in corso una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi e ad esibirla nella propria teca, così da poter rivendicare il titolo di successore e garantirsi un futuro politico.
Ma la leadership di Berlusconi è qualcosa che si può ereditare, o piuttosto si conquista sul campo incarnando ciò che di buono il berlusconismo ha rappresentato per l’elettorato di centrodestra? Di fronte a questo spettacolo tra “falchi” e “colombe”, “lealisti” e “governativi”, è comprensibile guardare al dito anziché alla luna, e porsi dunque domande che Orsina definisce “miopi e contingenti”. Ma per quanto lo scontro in atto possa essere dominato da ambizioni (o miserie) personali, da una certa dose di reducismo e dai più futili motivi, è pur vero che ai diversi fronti contrapposti corrispondono in realtà altrettante visioni politiche su come dovrebbe essere il centrodestra italiano.
Possiamo dunque ironizzare e dirci disgustati quanto vogliamo, ma qualcosa per cui valga la pena discutere e dividersi c’è eccome. Siamo infatti ad un crocevia. Con la rara e brevissima parentesi della destra storica l’Italia non aveva mai conosciuto una destra di governo, nonostante gli italiani “non di sinistra” siano probabilmente da sempre un’ampia maggioranza nel Paese. La stessa idea di destra, o di centrodestra, è stata messa immediatamente al bando dopo il fascismo. Durante la Prima Repubblica abbiamo avuto prima un centro, poi un centrosinistra.
Silvio Berlusconi ha sdoganato l’idea di una destra di governo non solo e non tanto perché ha sdoganato gli ex-Msi, ma perché per la prima volta nella storia della Repubblica è riuscito a vincere le elezioni e a governare per molti anni a capo di una coalizione di centrodestra, in grado di non lasciare rilevanti vuoti politici né alla sua destra né al centro. Ora questa eredità è a rischio a causa dell’inevitabile tramonto della sua leadership: sia per errori suoi, sia per un’incessante opera di criminalizzazione giudiziaria e demonizzazione politico-culturale nei suoi confronti, non solo in quanto leader vincente ma forse soprattutto in quanto incarnazione di un centrodestra di governo, idea di per sé scandalosa e insopportabile agli occhi di molta parte dell’establishment, sia pubblico che privato, e della sinistra reduce del comunismo, ancora prigioniera del mito della resistenza tradita.
Ecco, dunque, il bivio. Ipotesi (a): torniamo verso un sistema (più simile a quello della Prima Repubblica) con un partito di centro e di governo, come era la Democrazia Cristiana, cioè incline ad una gestione consociativa e concertativa dello status quo, e una destra anche rilevante elettoralmente ma politicamente marginale. Si tratterebbe di un sistema potenzialmente a misura di Pd: avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l’elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei “presentabili”); ipotesi (b): andiamo verso un sistema più compiutamente bipolare (una sorta di evoluzione e maturazione della Seconda Repubblica), in cui al di fuori di una coalizione o di un partito unitario di centrodestra non resta pressoché alcuno spazio politico.
Entrambi i blocchi che si stanno confrontando in questo momento nel Pdl sembrano puntare dritti verso il primo scenario, anche se ciascuno, in cuor suo, forse s’illude di lavorare al secondo. Il Pdl nella versione degli “alfaniani”, “defalchizzandosi” e inseguendo il mito della stabilità a scapito del merito delle politiche, aprirebbe un fossato alla sua destra rischiando di ritrovarsi elettoralmente rilevante ma subalterno alla sinistra, in sostanza un avversario da battere agilmente o, al massimo, da cooptare in un governo di “larghe intese” qualora il Pd non trovasse alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare.
D’altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, europea e di governo, c’è tutto. Ciò che gli uni e gli altri dovrebbero capire è che se l’obiettivo è davvero un centrodestra maggioritario in un sistema bipolare, il Pdl (o Forza Italia, o comunque si chiamerà) ha bisogno sia dei falchi che delle colombe, dei moderati come degli intransigenti. Come ogni altro grande partito in una democrazia bipolare. Certo, poi non si possono non segnalare le contraddizioni delle attuali categorie, per cui gli esponenti di spicco degli “alfaniani” sono tra i più estremisti (vedi Giovanardi, Sacconi, Quagliariello, Formigoni, Roccella) su temi rispetto ai quali ormai qualsiasi destra con vocazione maggioritaria nel mondo occidentale non può più permettersi di arroccarsi.
Se con il termine “moderati” si intende moderazione nelle politiche e una tendenza al compromesso, e con il termine “radicali” una maggiore nettezza identitaria e intransigenza, un partito di centrodestra che abbia vocazione maggioritaria e di governo in un sistema bipolare non può fare a meno né degli uni né degli altri. A patto però – e torniamo ai “dilemmi” di cui parlava Orsina – che ci sia chiarezza sulle condizioni, riguardanti sia l’assetto del sistema politico sia l’identità del partito, alle quali può esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Insomma, tutti gli ingredienti del miglior “berlusconismo”, quello del 1994. Non è che non possa esistere un centrodestra senza Berlusconi in persona.
Ma o fa rima con il berlusconismo, nel senso degli ingredienti appena citati, o semplicemente non è. Diversamente, avremmo solo un centro e una destra, l’uno subalterno e l’altra marginale. La scelta bipolarista e presidenzialista deve essere quindi netta e perseguita con determinazione, e su questo purtroppo l’ala governativa del Pdl è spesso ambigua. Non si tratta solo di sistemi elettorali o istituzionali: ad un esito neocentrista si può arrivare anche se ci si proclama (come da sempre Casini) alternativi alla sinistra, qualora una linea troppo compromissoria e rinunciataria su questioni fortemente identitarie finisca con il provocare una scissione, o del partito o dell’elettorato di centrodestra. È vero che Berlusconi non ha mantenuto la grande promessa della “rivoluzione liberale”, ma nell’elettorato la richiesta di vera e propria liberazione dall’oppressione fiscale e burocratica si è semmai accresciuta, assumendo toni esasperati.
Tasse e giustizia sono forse i volti più emblematici e intollerabili dell’insano rapporto fra Stato e cittadini, che in Italia somiglia più al rapporto tra sovrano assoluto e sudditi. Di qui la centralità delle tasse (da tagliare, tagliando la spesa pubblica) e della giustizia (da riformare). Il problema dei “governativi” del Pdl è che accettando che l’esperienza delle “larghe intese” prosegua nonostante la decadenza di Berlusconi (per mano del partito alleato, prim’ancora che per effetto della mera applicazione di una sentenza di condanna), e mostrandosi disponibili a sacrificare sull’altare della “stabilità” anche temi centrali come tasse e giustizia, fino alla rottura con il proprio partito, hanno ridotto il loro potere contrattuale al tavolo del governo e alimentato nel Pd la tentazione di giocare sugli “strappi” per provocare la spaccatura del Pdl.
Quasi tutti i provvedimenti del Governo Letta prevedono nuove tasse come coperture finanziarie, anche la cancellazione delle rate Imu per il 2013, e la legge di stabilità per il 2014 prevede il ritorno dell’Imu sulla prima casa e un aggravio generale della tassazione sugli immobili e sul risparmio (una patrimoniale ormai vicina a 40 miliardi), a fronte di sgravi più che altro redistributivi, che a giudizio della Banca d’Italia non compensano nemmeno l’effetto del fiscal drag. La legge di stabilità, così com’è, è davvero invotabile per chiunque abbia in mente un futuro di centrodestra. D’altronde, sulle tasse la disponibilità al compromesso richiesta da Letta e Saccomanni, e che Alfano sembra pronto ad accordare, appare davvero incompatibile con lo spirito “rivoluzionario” del ‘94 (e del 2001) a cui tutti a parole dichiarano di voler tornare.
Ai livelli a cui siamo giunti, un approccio radicale al tema delle tasse in Italia è l’unico plausibile per mantenere un rapporto con l’elettorato di centrodestra, a costo di venire accusati di populismo e irresponsabilità dalla sinistra. La sensazione è che l’ala governativa del Pdl abbia anteposto la “stabilità” non solo alla difesa del suo leader da una prematura decadenza, ma anche al merito delle politiche e, ciò che è peggio, agli assi fondanti del berlusconismo, per il semplice calcolo che sopravvenendo a breve l’incandidabilità di Berlusconi proprio la durata del governo avrebbe di per sé garantito un morbido passaggio della leadership del partito ad Alfano, ancora segretario. Riguardo l’Europa il discorso è più complesso. Sia “lealisti” che “governativi” sono ambigui.
Come ha osservato Panebianco sul Corriere della Sera, occorre “evitare di esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passepartout (che non spiegano nulla) come il termine populista”. Ma un centrodestra con vocazione maggioritaria e di governo non può nemmeno “flirtare” con pulsioni “No-euro” e anti-tedesche, né con irrealistici isolazionismi dal sapore autarchico. Dunque, contestare la retorica europeista “mainstream”, rappresentare con forza il più che fondato malcontento verso l’Europa che stiamo costruendo, un moloch burocratico e iper-statalista, ma la critica all’austerità da parte del centrodestra non può tradursi in nostalgia per le politiche fiscali lassiste e inflazionistiche, dovrebbe puntare a smontare la cultura economica dominante sia a Bruxelles che a Roma, per la quale tassare è l’unico modo per rispettare i vincoli di bilancio e gli investimenti pubblici l’unico per crescere.
Concludendo, la questione centrale è se questo Paese abbia diritto ad avere una destra o un centrodestra vincente e di governo, nei cui confronti non ci siano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte non solo degli avversari politici ma anche di poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro neo-democristiano culturalmente subalterno.
di Federico Punzi