venerdì 18 ottobre 2013
Nei commenti sulla legge di stabilità ha avuto grande successo la metafora della montagna e del topolino. I nemici delle larghe intese ne hanno fatto largo uso per manifestare la loro insoddisfazione per una manovra finanziaria che era stata presentata dal governo come quella che avrebbe lasciato un segno e che è stata realizzata con il proposito di non lasciare segni di qualsiasi genere. Ma il governo delle larghe intese avrebbe potuto partorire qualcosa di diverso da un misero topolino destinato a non cambiare assolutamente nulla? La domanda è retorica e la risposta è scontata.
Il governo non avrebbe potuto comportarsi in maniera diversa. Perché dalla sua nascita ad oggi ha cambiato natura. Non è più delle grandi intese tra Partito Democratico e Pdl, ma è diventato della piccola intesa tra la componente governativa del Pd e quella del partito di Silvio Berlusconi. Queste due componenti possono ancora contare su una maggioranza fondata più sull’istinto di autoconservazione di chi è diventato parlamentare da meno di un anno che su idee e programmi condivisi.
Ma sanno che all’interno dei rispettivi partiti sono entrambe in minoranza rispetto a gruppi che godono di un ampio consenso popolare e che puntano, proprio in base a questo consenso, a chiudere prima possibile l’esperienza delle larghe-piccole intese e a ritornare alla democrazia dell’alternanza sancita dalle elezioni anticipate. Nei grandi media politicamente corretti impazza ormai da settimane la narrazione di un Pdl diviso tra falchi e colombe e di un Berlusconi che, pur mediando tra le due anime del Pdl, punta alle elezioni di marzo per rimanere comunque sulla scena politica.
A questa immagine di divisione e di declino del centrodestra si affianca quella di una cavalcata trionfale di Matteo Renzi verso la segreteria del Pd. Ma chi non si lascia convincere dalle rappresentazioni politicamente corrette sa bene che lo schematismo manicheo tra i cattivi berlusconiani che puntano alle elezioni e i buoni renziani che si apprestano a conquistare e rinnovare il Pd è fasulla. La verità è che i due schieramenti sono maggioritari all’interno dei rispettivi partiti e puntano entrambi a chiudere l’esperienza delle larghe intese sempre più ristrette e ad andare alle elezioni nella prossima primavera.
Le ragioni , ovviamente, sono diverse. Berlusconi pensa che il voto a marzo sia l’ultima spiaggia su cui puntare per rimanere nel gioco politico e non lasciarsi liquidare definitivamente dalla persecuzione mediatico-giudiziaria. Renzi sa bene che la segreteria senza premiership sarebbe una gabbia in cui la vecchia nomenklatura del partito conta di cucinarlo a fuoco lento. Ma l’obiettivo dell’uno e dell’altro è lo stesso: tornare al voto. E quel che più conta non è solo un obiettivo personale, ma coincide con l’umore prevalente dei rispettivi elettorati. In queste condizioni la montagna governativa non poteva che partorire il topolino di una legge di stabilità priva di segni.
di Arturo Diaconale