sabato 31 agosto 2013
Passi la fretta con cui la sezione feriale della Cassazione ha tenuto l'udienza sul processo Mediaset per evitare che potesse scattare la prescrizione. Passi la rapidità con cui il Presidente della stessa sezione feriale, Esposito, dopo solo qualche ora dalla sentenza di condanna di Silvio Berlusconi ha rilasciato la famosa intervista in cui ha anticipato le motivazioni della decisione. Passi anche l'incredibile velocità con cui i giudici del Palazzaccio, lavorando notte e giorno durante la pausa di ferragosto, hanno redatto e depositato le oltre 280 cartelle di motivazione della condanna del leader del Pdl. E passi pure il fatto che , a differenza della prassi normale, queste motivazioni siano state sottoscritte non dal solo Presidente ma da tutti i componenti del collegio giudicante.
Certo, una così intensa serie di indizi concomitanti possono suscitare il sospetto che il comportamento e la decisione dei magistrati non siano stati provocati solo dall'applicazione delle norme di legge all'insegna del “dura lex, sed lex”. Ma sarebbe sbagliato concludere che la corsa ad arrivare alla sentenza di condanna e la fretta a fornire le motivazioni prima che il Senato affronti la questione della decadenza da parlamentare del Cavaliere siano state ispirate da una ragione politica. Naturalmente un pizzico di pregiudizio antiberlusconiano, come ha dimostrato l'intervista da Totò, Peppino e la malafemmina del Presidente Esposito, non è mancato.
Ma non è stata questa la ragione di fondo del comportamento della sezione feriale della Cassazione. Non c'è stata, in sostanza, la motivazione politica. C'è stata , al contrario, la motivazione corporativa. Una motivazione che prima ha prodotto una sentenza di condanna per non delegittimare il comportamento dei magistrati di Milano. E poi ha portato ad una accelerazione del deposito delle motivazioni firmate congiuntamente per manifestare solidarietà ad un Presidente che si esprimerà pure come un personaggio di Raffaele Viviani ma che rappresenta comunque l'intoccabile casta comune. Il paradosso, dunque, è che la motivazione politica sarebbe stata addirittura preferibile a quella corporativa. Perché sarebbe stata molto più trasparente e genuina.
E, sicuramente, avrebbe tenuto conto delle condizioni generali in cui si trova il paese e della necessità di operare, sia pure nel rispetto della legge, senza forzature e con un minimo di prudenza e di buon senso. Invece la paura di delegittimare i colleghi milanesi e la preoccupazione di manifestare solidarietà al Pazzariello Esposito ignorando completamente ed ostentatamente la situazione di grave difficoltà in cui si trova il paese, rendono molto più inquietante il giudizio sulla vicenda. Perché confermano il sospetto alimentato da ormai troppi anni a questa parte che la democrazia e la società italiane sono nelle mani di un ristretto numero di privilegiati irresponsabili insensibili agli interessi generali e tesi solo a tutelari quelli della propria casta. Come i nobili e gli ecclesiastici prima della presa della Bastiglia.
di Arturo Diaconale