venerdì 26 luglio 2013
Dunque, i registi (registi!) del cinema italiano hanno deciso quanto segue: «I politici italiani non saranno i bene accetti nelle sale in occasione dei prossimi festival cinematografici!». Hanno poi chiarito ulteriormente: «Tutti i politici non dovranno entrare in quelle sale!». Dunque, è guerra. La guerra dei cineasti contro la politica.
Speriamo che duri, hanno chiosato quelli del Tea Party, pensando che, con questo atto di belligeranza, se condotto alle sue naturali conseguenze, lo Stato italiano, cioè i politici, non potranno e non dovranno più finanziare il nostro cinema. È questo che vogliono gli impavidi registi consegnando la dichiarazione di guerra a Palazzo Chigi con annessi e connessi? No, non è questo che vogliono. Vogliono, semplicememte, più soldi, più appostazioni di bilancio, più risorse al Fus, fondo unico dello spettacolo che, come tutti i fondi, si sta smagrendo. È così da qualche anno e sarà peggio di così, se la crisi continuerà. Ma, a ben vedere, il punto non è questo. E lo dice uno che negli anni '80 ha fatto il relatore alla camera proprio sulla istituzione del Fus voluta fortemente da un illuminato ministro di nome Lelio Lagorio.
Tempi lontani, ma sempre presenti alla memoria non soltanto per quella scelta diciamo così statalista, ma per ciò che ne derivò positivamente per l'intero comparto della spettacolo italiano. Il quale spettacolo, particolamente quello della cinematografia, ha goduto fin dall'epoca fascista (direi soprattutto) delle beneficienze octroyée dal regime, sol che si pensi che si deve al Duce e a Freddi la creazione di Cinecittà, del Luce, del Centro Sperimentale, ovverosia ,del nostro cinema tout court. Cinema che, nel dopoguerra di macerie, fu ricostruito, fra alti e bassi, specialmente alti, da Giulio Andreotti su delega di De Gasperi. In altre parole, lo stato, i governi, la politica, mantiene gran parte del nostro cinema,di allora e di ora.
Dunque, di cosa stiamo parlando, cari registi? Vogliamo parlare dello stato vero, dello stato del cinema all'italiana sotto il profilo della entità e identità, quantità e qualità, termini questi inscindibili dal problema generale? Vogliamo andare a vedere che ne è stato delle provvidenze statali? Vogliamo davvero capire che ne è stato delle appostazioni non piccole dedicate al cinenma in decenni e decenni? Non è soltanto un problema di favoritismi - che pure esiste, ma è inevitabile -è un problema che chiama in causa direttamente il ruolo, la professionalità, le capcità di creazione e di scrittura e di realizzazione dei cineasti. E la loro sesibilità, il loro feeling con la nostra società, con l'Italia di oggi.
Dove sono questi film a parte tre o quattro in un anno? Dove stanno i registi che dovrebbero narrare il nostro tempo? Chi li ha visti? I più guardano il proprio ombelico quale baricentro dell'intero mondo. E vogliamo parlare dei loro successi? Quali e quanti film hanno il gradimento del pubblico? Anzi, quanti di loro finiscono nelle sale? Le cifre al proposito sono terrificanti. Certo, il cinema non può e non deve morire, anche perché il nostro ha una fulgida tradizione, da Rossellini a Fellini a Monicelli a Antonioni a Visconti e seguenti. Certo è, però, che dichiarare guerra da parte dei registi alla poliica è l'ultimo gesto, incredibilmente autolesionista e velleitario che si potesse escogitare per dare il colpo di grazie alla settima arte versione italica.
Un cinema che è davvero alla frutta. Avete dichiarato la guerra, e poi? Invece di vietare l'ingresso ai politici, i registi dovrebbero preoccuparsi di favorire l'entrata del pubblico in sale simili a forni. Forse i politici staranno alla larga dai Festival. Ma sicuramente chi sta più alla larga dal cinema è lo spettatore.
di Paolo Pillitteri