mercoledì 5 giugno 2013
Modificare o cambiare? I sostenitori ad oltranza della intangibilità della “Costituzione più bella del mondo” giocano su questo interrogativo. Un conto, sostengono, è “modificare” la Carta Costituzionale eliminando, ad esempio, il bicameralismo perfetto. Un altro conto è cambiarla radicalmente sostituendo il sistema parlamentare con il sistema presidenziale. La loro tesi, quindi, è che modificare è lecito, mentre cambiare sarebbe un vero e proprio attentato alla Costituzione, cioè un gravissimo reato previsto dal nostro Codice Penale. Questa tesi, cara a Rosi Bindi, a Stefano Rodotà, a Nichi Vendola, a Gustavo Zagrebesky, a Roberto Saviano, è sicuramente pericolosa.
Perché può sicuramente innescare l'iniziativa di qualche Pm in cerca di facile gloria contro i sostenitori della necessità di innovare una Carta Costituzionale scritta in condizioni storiche e politiche completamente diverse da quelle attuali ed adeguare alle condizioni storiche e politiche attuali la forma dello stato repubblicano. Ma è talmente debole e strumentale da poter essere confutata ricorrendo al semplice buon senso. Cioè all'unica argomentazione che può essere compresa e condivisa dalla stragrande maggioranza dell'opinione pubblica. Tesi diversa, invece, è quella a suo tempo esposta da Giorgio Napolitano secondo cui il vero problema non è la distinzione tra “modifica” e “cambiamento” ma la differenza tra il ruolo del Capo dello Stato previsto dalla attuale Costituzione ed il ruolo del Capo dello Stato eletto direttamente dai cittadini.
Il primo , secondo la volontà dei Padri Costituenti, rappresenta l'unità della nazione e, in quanto tale, deve essere necessariamente super partes. Il secondo, invece, proprio perché eletto direttamente dai cittadini, è sempre il simbolo dell'unità nazionale ma non può non essere che l'espressione di una parte , consistente e maggioritaria quanto si vuole, ma sempre di una parte. Il rischio, in sostanza, secondo il pensiero a suo tempo espresso da Napolitano, è che un presidente eletto da uno schieramento in alternativa ad un altro non venga più percepito dal paese come il simbolo dell'unità nazionale. E questo produca quella lacerazione e quella spaccatura della società che, paradossalmente, l'elezione diretta vorrebbe evitare. È probabile che in Italia un rischio del genere possa essere maggiore rispetto ai paesi in cui il sistema presidenziale, cioè di un presidente eletto da una parte ma che rappresenta egualmente l'unità dello Stato, non provoca lacerazioni e contrasti eccessivi.
La storia d'Italia è diversa da quella di Stati Uniti e Francia. E non è da escludere che da noi il rischio di un presidente che divide potrebbe essere più alto rispetto ad altre nazioni. A bilanciare una preoccupazione del genere, fin troppo legittima, però, c'è l'esperienza consolidata nel corso di alcuni decenni di storia repubblicana. Perché è vero che i Padri Costituenti vollero che il Capo dello Stato ed i Presidenti di Camera e Senato, cioè i massimi vertici istituzionali, fossero figure di garanzia al di sopra delle parti. Ma è altrettanto vero che nel passaggio dalla Costituzione formale a quella materiale le iniziali figure di garanzia sono progressivamente tornate a svolgere, tra l'altro con l'autorevolezza derivante dalle loro cariche, funzioni politiche comunque divisive. Senza tornare indietro nel tempo, agli esempi di Gronchi, di Segni, di Pertini, di Cossiga, di Scalfaro, basta fare riferimento alla supplenza politica esercitata con estremo vigore da Giorgio Napolitano per registrare come la volontà originaria dei Padri Costituenti sia stata innovata (per non dire stravolta).
Un fenomeno che non riguarda solo il Capo dello Stato ma anche i Presidenti di Camera e Senato. Come dimenticare, infatti, il doppio ruolo di terza carica dello stato e di capo-partito esercitato da Gianfranco Fini nella passata legislatura ? E come non prendere atto che in quella presente il Presidente del Senato continua ad interpretare il ruolo di capo dell'Antimafia ed il Presidente della Camera non perde occasione per manifestare le proprie convinzioni politicamente corrette?
di Arturo Diaconale