Il caso Ilva, la crisi e il compito del governo

martedì 28 maggio 2013


Ora tutti discutono sul calo dei votanti alle amministrative di domenica, del ballottaggio di Roma, della flessione dei grillini e delle divisioni dei Ds. Come se simili questioni politiche fossero al centro dell'attenzione degli italiani. E, soprattutto, come se il futuro del paese dovesse dipendere dalla riduzione o dall'aumento dei partecipanti alle infinite tornate elettorali, come se l'esito del ballottaggio romano fosse destinato a provocare la risurrezione della Capitale dallo stato comatoso in cui versa da almeno cinquant'anni o come se il declino o la ripresa del paese dovesse effettivamente dipendere dalle sorti del Movimento Cinque Stelle o del Partito Democratico.

Bisognerebbe rilevare che l'esito del voto non sarà comunque determinante per la stabilità dell'attuale quadro politico ed incominciare ad occuparsi di questioni molto più serie ed urgenti di cui la prima è sicuramente la sorte dell'Ilva. Che fine potrà fare l'azienda di proprietà della famiglia Riva che rappresenta in prima persona e per l'indotto che produce la siderurgia italiana? L'interrogativo non riguarda i Riva, padre e figli. Che avranno pure otto miliardi di beni sequestrati dalla magistratura ma che, presumibilmente, non hanno problemi di sopravvivenza personale e possono al massimo perdere il rischio di perdere le loro aziende. L'interrogativo riguarda i quarantamila lavoratori occupati nel settore della siderurgia che rischiano di perdere i lavoro e di finire in una cassa integrazione che nel loro caso sarebbe solo il preludio alla disoccupazione. Ma , soprattutto, riguarda la possibilità in genere della società e dell'economia nazionale di uscire dalla crisi che sta minacciando di trascinare il paese in un gorgo al termine del quale non c'è un generico declino ma un vero e proprio tracollo con annessa regressione all'Italia pre-industriale.

Dire che il futuro si gioca sull'Ilva non significa prendere le parti dei Riva, del consiglio di amministrazione dimissionario e stabilire che il diritto al lavoro debba sempre e comunque prevalere rispetto al diritto alla salute. Non significa neppure schierarsi contro ai magistrati che hanno sparato a stanno continuando a sparare a zero contro i Riva e gli amministratori in nome della prevalenza della salute sul lavoro. Significa semplicemente rilevare che la vicenda dell'Ilva è diventata la cartina di tornasole delle possibilità italiane di uscire dalla crisi. Dalla soluzione che si darà al problema Ilva, in altri termini, si potrà vedere se e come il paese riuscirà a riprendere la via della crescita e dello sviluppo. Non importa quale potrà essere il tipo di soluzione che potrà essere presa. Se diretta a difendere il settore della siderurgia italiana o se mettere una pietra tombale sull'acciaio simbolo dello sviluppo industriale e puntare su qualsiasi altro tipo di economia diversa da quella manifatturiera. L'importante è che una soluzione venga comunque presa. Senza tentennamenti, senza equivoci, senza rinvii di sorta e tenendo ben conto delle conseguenze che ogni scelta è destinata a provocare . Si vuole difendere la siderurgia? Bisogna strappare l'Ilva dalle mani di una magistratura che non conosce la regola del “summum jus, summa iniuria”.

Si vuole chiudere l'Ilva e convertire l'impianto di Taranto in una oasi del Wwf? Bisogna trovare i soldi per pagare la cassa integrazione per anni ed anni a quarantamila lavoratori oltre che i finanziamenti necessari a bonificare un'area consegnata irresponsabilmente per decenni e decenni al massimo inquinamento. Ciò che non bisognerebbe fare è non prendere una decisione precisa. Cioè cercare di scaricare sullo stato il compito di salvare la siderurgia inventando qualche marchingegno per imbrogliare Bruxelles e la Ue. E sperare che la cacciata dei Riva e l'intervento pubblico possano placare la furia salutista di una magistratura che, con la scusa che non le compete, se ne infischia dei problemi sociali ed economici. Il governo Letta, se c'è, batta un colpo!


di Arturo Diaconale