giovedì 18 aprile 2013
Mentre Milena Gabanelli si chiama fuori (dopo una riflessione così prolungata da far trasparire scarso senso del ridicolo), e Rodotà dunque, alla fine, dovrebbe essere il nome scelto dal M5S per sfidare il Pd, e mentre Prodi sembra ormai uscito dalla partita, con il deludente ottavo posto ottenuto alle “Quirinarie”, sembra Giuliano Amato il fortunato (o sfortunato) destinato ad entrare Papa nel Conclave presidenziale (con D'Alema nient'affatto rinunciatario). Rodotà, quindi, se il Pd intende ancora proseguire sulla via penitenziale e gravida di umiliazioni predisposta da Grillo. Amato, se invece prevarrà la linea di una qualche forma di dialogo e collaborazione con il Pdl.
Cassese l'outsider, ma sarebbe il colmo se Berlusconi si facesse convincere a mandare al Colle un giudice della Consulta. Queste le indicazioni dei retroscena della vigilia, che come si sa lasciano il tempo che trovano. Anche perché stentiamo a credere che davvero Pd e Pdl intendano puntare su Amato. Sarebbe una scelta politicamente suicida per entrambi e anche rischiosa per la tenuta del sistema, tanta è l'impopolarità dell'ex presidente del Consiglio socialista. Possibile che i partiti siano così sconnessi dalla realtà del paese da non cogliere la portata del risentimento anti-sistema che scatenerebbe l'elezione di Amato? Per gli italiani è, e sarà sempre, il parassita di Stato che si porta a casa più di 30 mila euro di pensioni al mese, nessuna delle quali ovviamente maturata con il sistema contributivo; colui che ha prelevato di notte i soldi dai conti corrente degli italiani e che continua a proporre nuove tasse patrimoniali; colui che per riciclarsi nella II Repubblica ha fatto finta di non conoscere Craxi, di cui fu sottosegretario e braccio destro. Insomma, Amato incarna tutto ciò che gli italiani disprezzano dello Stato e della casta: privilegi, tasse, trasformismo.
Con la sua elezione anche il Quirinale, un'istituzione fino ad oggi solo marginalmente oggetto degli attacchi dell'antipolitica, potrebbe precipitare nella crisi di legittimazione e autorevolezza che stanno vivendo i partiti. Ma al di là del merito, del “totonome”, è il metodo di elezione del nostro presidente della Repubblica a meritare qualche riflessione. Si tratta infatti di un rito stucchevole e opaco, un bizantinismo ormai fuori dalla storia, con risvolti persino surreali. Basti pensare che la sola assenza di candidature ufficiali può portare ad un esito assurdo. Dove sta scritto, infatti, che il Giorgio Napolitano eletto nel 2006 fosse proprio “quel” Giorgio Napolitano e non un omonimo, e che non esistano altri Giuliano Amato o altre Emma Bonino? Ma soprattutto, se è vero che gli ultimi presidenti hanno visto accrescere enormemente il loro peso politico pur senza esercitare poteri che non fossero previsti dalla nostra Costituzione, è indubbio che quello del capo dello Stato non è più il ruolo così neutro e imparziale come era stato concepito dai costituenti e interpretato dai primi 6/7 presidenti. Negli ultimi decenni si è trasformato. A causa della crisi dei partiti e dell'intero sistema politico-istituzionale, non certo di una volontà prevaricatrice da parte degli inquilini del Colle, il loro è diventato un ruolo supremamente politico, “intra partes” piuttosto che super partes.
Ormai è inutile, velleitario, aspettarsi una figura neutra e imparziale. Primo perché non c'è. Secondo, perché ormai il contesto storico e politico richiede tutt'altro che neutralità. Proprio quest'ultimo settennato ci insegna a non confondere la correttezza con la neutralità: sempre corretto dal punto di vista formale, e attento garante delle istituzioni, Napolitano ha interpretato in modo tutt'altro che neutro e imparziale il suo ruolo. D'altra parte, i nostri costituenti avevano sì concepito una figura di capo dello Stato alla quale per decenni neutralità e imparzialità sono state indossolubilmente associate, sembrando inderogabili, ma l'hanno anche dotato di poteri potenzialmente molto incisivi, tipicamente “presidenzialisti” (come il potere di nomina del presidente del Consiglio o di scioglimento delle Camere), lasciando ampia discrezionalità interpretativa sul suo ruolo. E invece di consegnare ai cittadini le chiavi del Quirinale, temendo svolte populiste hanno preferito lasciarle in mano ai partiti. Per circa 40 anni tali poteri sono rimasti “in sonno”, essendo il sistema politico bloccato. Ma pur nel rispetto del dettato costituzionale, i connotati “presidenzialisti” hanno finito per prevalere su quelli “notarili”. Pertini e Cossiga hanno sdoganato le “esternazioni presidenziali”, al di fuori dei messaggi formali alle Camere previsti dalla Costituzione.
Da quando è stata introdotta la democrazia dell'alternanza, i presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo di garanzia come interposizione, se non contrapposizione alla maggioranza a loro non affine politicamente, trovando nella Costituzione i poteri per farlo e dando luogo quindi ad una forma di diarchia. Il risultato è che oggi in Italia il semipresidenzialismo c'è già: nei poteri, ma senza investitura popolare. Un semipresidenzialismo “a corrente alternata”. Il Quirinale ha lavorato come uno studio notarile durante i governi di centrosinistra, mentre ha esercitato i suoi poteri in senso presidenzialista durante i governi di centrodestra, dando vita ad una sorta di “coabitazione”. Napolitano è il presidente che ha portato a compimento questo processo. Pur nel rispetto formale dei suoi poteri costituzionali, è diventato un “dominus” della scena politica, riempiendo uno spazio politico lasciato vuoto dalla debolezza sia del governo che del Parlamento. Con tempismo perfetto ha saputo inserirsi nel dibattito quotidiano e nella dialettica tra le forze politiche, offrendo autorevoli “coperture” istituzionali o lanciando dure reprimende, oscillando tra arbitro ineccepibile, indebita sponda e giocatore a tutti gli effetti.
È arrivato a condividere con l'esecutivo importanti atti di indirizzo, esercitando di fatto un potere di veto e/o di vaglio preventivo sui decreti legge, spesso sottoposti ai suoi uffici addirittura prima di arrivare in Consiglio dei ministri. Ma è intervenuto pesantemente anche sul processo legislativo: contribuendo ad affossare provvedimenti (come il ddl intercettazioni); condizionando il calendario parlamentare e l'agenda politica; e qualche volta vagliando i testi di legge prima che uscissero dalle commissioni parlamentari. Sia pure spinto da circostanze eccezionali, è arrivato a scegliersi un premier. Completare con gli opportuni poteri ed equilibri questa innovazione presidenzialista, dandogli legittimità costituzionale e investitura popolare diretta, come avviene, per esempio, in Francia, è ormai indispensabile e urgente, se non si vuole incrinare anche la fiducia degli italiani nel Quirinale. In un paese normale, Pd e Pdl saprebbero approfittare dell'impasse politico per avviare una fase “ri-costituente”: rieleggendo Napolitano come garante di un rapido processo di riforma (basato sullo scambio tra doppio turno di collegio e semipresidenzialismo) da portare a compimento in 12 mesi.
di Federico Punzi