Non è Silvio ma Matteo il nemico di Bersani

giovedì 11 aprile 2013


Non si spiega con la sola ambizione personale la testarda determinazione con cui Pier Luigi Bersani persegue l'obbiettivo di presiedere un governo di minoranza. L'unica spiegazione possibile è quella che tira in ballo non solo le fortune personali del segretario del Pd ma anche la sorte del gruppo dirigente dei suoi fedelissimi convinti che il futuro del partito si giochi tutto sulla strategia della rincorsa alla sinistra radicale. Perché Bersani presidente del Consiglio di un governo di minoranza è essenziale per il buon esisto di questa strategia? La risposta è fin troppo semplice. Perché solo la presenza del segretario a Palazzo Chigi per un governo che duri anche pochi mesi prima di portare il paese a nuove elezioni anticipate è la condizione per evitare che lo stesso Bersani e l'intero suo gruppo di fedelissimi possa perdere il controllo del Partito Democratico e passare la mano al personaggio che viene vissuto dall'uno e dagli altri come il nemico più pericoloso da combattere ed eliminare a qualsiasi costo.

Il personaggio in questione, ovviamente, è Matteo Renzi. Che agli occhi di Bersani e dei suoi fedelissimi non è solo lo sfidante sconfitto alle primarie e quello che pretende di avere una rivincita quando il ricorso a nuove elezioni imporrà la scelta di un nuovo candidato Premier da parte del Pd. Ma è quello che rappresenta fisicamente la linea politica esattamente contraria a quella della rincorsa alla sinistra radicale portata avanti dai bersaniani e dalle altre componenti più fondamentaliste del Partito Democratico. La questione, dunque, non è personale, Bersani contro Renzi. È politica. E vede contrapposte le posizioni di chi pensa che il futuro del Pd passi attraverso la riunificazione di tutte le diverse forze della sinistra radicale, compresa quella rappresentata dal Movimento Cinque Stelle considerato componente determinante dell'album di famiglia. E di chi, al contrario, è convinto che la sinistra possa continuare ad avere un futuro di forza di governo alternativa ed antagonista al centro destra solo a condizione di trasformarsi in una forza riformista capace di tagliare definitivamente i ponti con i gruppi più estremisti. Fino ad ora queste due componenti hanno convissuto all'interno del Pd.Ma l'apparizione di Matteo Renzi, a cui la sconfitta alle primarie è paradossalmente servita per entrare a vele spiegate nella dimensione politica nazionale, ha provocato la rottura del difficile e faticoso equilibrio su cui si reggeva la convivenza. Ed ha innescato un processo di conflittualità aperta e dichiarata che difficilmente può sfociare in un qualche patto da sperati in casa. La conclusione, resa obbligata dalla differenza antropologica tra i renziani ed i bersaniani che gli uni e gli altri non sanno mitigare e contenere ma solo alimentare, è quella della divisione. Che non sarebbe l'ennesimo capitolo della lunghissima storia di contrasti e di lacerazioni tra massimalisti e riformisti che nel momento in cui si lasciano pensano già a quanto potranno ritrovarsi.

Ma che rappresenterebbe l'inizio di una nuova storia tra due aree politiche pur provenienti da una matrice comune ( non quella del post-marxismo ma quella del cattocomunismo berlingueriano e moroteo ) ma divise in maniera irrimediabile da una diversa concezione non del ruolo della sinistra ma del modello di sistema democratico a cui fare riferimento. A dividere in maniera irreversibile Renzi e Bersani, in sostanza, ci pensa Beppe Grillo e la sua idea di provocare una primavera araba in Italia all'insegna della democrazia diretta. Il sindaco di Firenze, che non vuole rincorrere le suggestioni arabe, è per la democrazia rappresentativa. Bersani ed i suoi giovani turchi pensano che che la sorte del Pd sia di tornare ad essere il Pci, non avere nemici a sinistra ed essere pronti anche a mettersi il caffetano pur di raggiungere questo risultato. Lo scontro è interessante. L'unico guaio è che le conseguenze negative ricadono sull'intero paese!


di Arturo Diaconale