martedì 9 aprile 2013
Il paradosso è che ora l'unica speranza di salvezza di Pier Luigi Bersani si chiama Silvio Berlusconi. Già, proprio quel Cavaliere che all'indomani del voto il segretario del Pd avrebbe voluto dichiarare non candidabile e sbattere in galera per convincere un pezzo del Movimento Cinque Stelle a sostenere il suo tentativo di formare il governo. Matteo Renzi , che pure è stato il primo a rilevare come lo stallo politico attuale possa essere sbloccato da una intesa tra Pd e Pdl, ha colto al volo questo paradosso. E si è affrettato a ribaltare su Bersani ed i suoi collaboratori del tortellino magico l'accusa di inciucisti che fino a quel momento aveva dovuto subire dagli uomini del segretario.
La mossa del sindaco di Firenze non è affatto contraddittoria ma una semplice presa d'atto della bizzarra piega presa negli ultimi giorni dal tormentone politico iniziato con l'ormai lontano voto di febbraio. Se Bersani vuole concretizzare il sogno di poter entrare a Palazzo Chigi assumendo la guida del governo del paese non ha altra strada che quella di un accordo di ferro con il leader del centro destra concordando il nome del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale ed accettando le richieste di Berlusconi sulla composizione dell'esecutivo. La conferma definitiva della linea anti-sistema del Movimento Cinque Stelle ed i minacciosi richiamo al realismo di Franceschini e di buona parte della nomenklatura del Pd non consentono a Bersani, sempre che non decida di tirarsi indietro consegnando il partito a Renzi o puntando alle elezioni anticipate (ma sempre consegnando il Pd al proprio avversario interno), una qualsiasi alternativa all'accordo con il Cavaliere. Il leader della sinistra deve andare a Canossa da quello del centro destra. Naturalmente Bersani può cercare di trattare sul tipo di accordo da stipulare.
Ma i suoi margini di manovra, pressato com'è dall'intransigenza grillina e dalla dissidenza interna, sono molto esigui. Può tentare di convincere Berlusconi a non pretendere un candidato di centro destra al Colle in cambio di una partecipazione diretta del Pdl nella compagine governativa, cioè della piena legittimazione politica e morale del centro destra e del suo massimo rappresentante. O viceversa, può accettare di votare Gianni Letta al Quirinale in cambio di avere il via libera non ad un governissimo ma ad un governo di scopo dai compiti e dalla vita limitata. Ma oltre queste due limitazioni rigide non può andare. E se non riesce a trovare un punto di mediazione possibile (ed accettabile da parte di Berlusconi) entro il perimetro delineato non ha altra strada che gettare la spugna ed uscire di scena in maniera definitiva con il marchio del piffero di montagna che partì per suonare e che tornò suonato.
La sorte di Bersani, quindi, dipende dal Cavaliere. Che può avere interesse a far sopravvivere il proprio avversario per evitare di ritrovarsi, in caso di nuove elezioni a breve, un avversario più sicuramente più pericoloso come Matteo Renzi. Ma che può anche avere anche l'interesse di portare a casa lo scalpo (si fa per dire) di Bersani per scatenare dentro il Pd una fase di furiosi regolamenti interni (non è detto che l'avvento di Renzi sia indolore) destinata a frantumare la sinistra e trasformare il centro destra, in una versione ovviamente allargata al centro ed alle forze riformatrici, la sola alternativa alla forza anti-sistema di Beppe Grillo. È difficile prevedere se Berlusconi sceglierà la strada della grazia o del colpo di grazia nei confronti del proprio interlocutore. La natura del Cavaliere e l'interesse per un Presidente della Repubblica non espressione della sinistra lasciano pensare più alla prima che alla seconda ipotesi. Anche perché, comunque vada, alla seconda ci penseranno i dissidenti della sinistra oltranzista e giacobina.
di Arturo Diaconale