giovedì 7 marzo 2013
Alzi la mano chi aveva creduto che nessuno, dopo i risultati elettorali, avrebbe potuto tirare diritto come se nulla fosse, perché il mio braccio è già disteso. Ci sono cascata. Avevo manifestato persino un certo ottimismo perché ritenevo impossibile che i partiti non prendessero atto che il voto ha segnato un punto di non ritorno, un aut aut dal quale dipende integralmente il futuro di questo paese, o – meglio - la possibilità o meno che un futuro ci sia. E invece no. Uno si sarebbe aspettato che Pier Luigi Bersani, dopo la non vittoria (che nella lingua della società civile si chiama batosta elettorale), da un lato si rendesse disponibile a qualsiasi soluzione per garantire quantomeno un governo di transizione, sistemare quelle tre o quattro cose fondamentali per tornare alle urne, e lanciare un segnale di cambiamento nella vita pubblica e nell’economia; dall’altro, che si dimettesse dal suo ruolo di segretario del Pd per favorire il rinnovamento del partito sapientemente bloccato quando pensava di avere la vittoria in tasca.
Non ci vuole un genio della politica per capire che non ci sono più i margini per le chiacchiere e i sofismi; e lui, invece, che cosa fa? Forte del premio di maggioranza di una legge elettorale tanto vituperata quanto prudentemente conservata e adesso oscenamente sfruttata, si mette a lanciare diktat. Per essere uno che non ha mai detto una cosa chiara e tonda durante tutta la campagna elettorale, adesso punta i piedi e scandisce paroloni. Per dire che un accordo di governo con il Pdl non ci sarà mai, e pietire il sostegno di Grillo (che ha insultato, generosamente ricambiato, per mesi e mesi) su un programma di governo di otto punti. Otto punti di cui un paese sull’orlo del baratro, naturalmente, non può fare a meno. Una legge contro la mafia (ma perché, essere mafiosi attualmente è legale?), una contro la corruzione (che può anche essere migliorata ma c’è già), una sul conflitto di interessi (che ci vuole indubbiamente, ma non è la priorità), cittadinanza a oltranza (fondamentale per la ripresa?), diritti alle coppie omosessuali (giustissimo, ma nella situazione attuale non può essere all’apice di un’agenda di governo), diritto allo studio (ammetto di non sapere chi in Italia non ne goda), e interventi per una politica più sobria e per l’emergenza economica e sociale (le uniche cose veramente urgenti, su cui però non è dato sapere di più). In un momento così delicato, in cui la miccia dell’insofferenza sociale può esplodere da un momento all’altro, il segretario del Pd lancia questo programmino vago e inutile e sfida a sostenerlo quello che fino a ieri era il mostro dell’antipolitica e del populismo pseudo- fascista.
Incredibile. Rivendica il suo primato ma passa la palla a Grillo, e si innervosisce pure perché sarebbe il leader del M5S a dover dire cosa voglia fare, altrimenti - minaccia impetuoso - si va tutti a casa. Ma dov’era Bersani mentre Grillo urlava per tutte le piazze italiane – e senza tanti giri di parole – quello che voleva fare? Perché continua a “sfidarlo” quando è ovvio ed è già stato ribadito dieci volte che i grillini non daranno la fiducia ad un eventuale governo Bersani? E d’altronde, come si fa anche solo ad immaginarlo quando è del tutto evidente che i partiti stanno al M5S come un’astronave ad un asteroide in rotta di collisione? Se la prima aggiusta la rotta, il secondo sparisce. Grillo l’incoerenza non se la può permettere, non è nel suo interesse. È convinto che un governo di larghe intese soffrirebbe abbastanza la pressione grillina da non osare, ad esempio, eleggere un nuovo presidente della Repubblica che non sia di sufficiente gradimento popolare, ma è anche fiducioso che il Pd e il Pdl finirebbero per logorarsi definitivamente, permettendo al M5S, alle quantomai prossime elezioni, di governare direttamente da soli.
E questo è uno scenario che andrebbe molto oltre l’utilità storica della presenza grillina in Parlamento, e per scongiurare il quale era indispensabile che la lezione delle urne venisse capita. Il Pd sta inanellando una serie di errori che sono potenzialmente letali per l’Italia. Prima il boicottaggio di Renzi, che è stato un utilissimo alibi anche per la ricandidatura di Berlusconi, e ora la smania di governare sapendo di non avere i numeri e gli strumenti adeguati al dramma della situazione attuale. Perché la realtà, incredibilmente, ancora non gli entra in testa. E la realtà è fatta di un paese in cui quindici mesi di dissanguamento economico sono serviti a far aumentare la spesa pubblica del 3% e a prosciugare i risparmi degli italiani. Il tessuto produttivo è ridotto all’osso e invoca disperato un allentamento della tenaglia fiscale, e quello sociale è sull’orlo dell’esplosione perché ha finito i soldi. Siamo alla frutta, e loro fissano le consultazioni a un mese di distanza dal voto. Ma il paese non ce l’ha un mese da spendere dietro ai giochetti di palazzo. Se le ultime speranze verranno deluse, le conseguenze potrebbero essere tali da far apparire la Grecia una prospettiva ineludibile, e questa volta niente e nessuno ne sarebbe risparmiato. Neanche loro.
di Valentina Meliadò