Grillo può mandare in pezzi il Pd

martedì 5 marzo 2013


L'affannosa rincorsa ai “grillini” rischia di mandare in mille pezzi il Partito Democratico. Perché lo mette in rotta di collisione con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non può affidare a Pierluigi Bersani l'incarico pieno di formare il governo puntando sulla promessa del segretario del Pd di riuscire a racimolare un numero di transfughi del Movimenti Cinque Stelle tale da assicurargli la maggioranza anche al Senato. Perché accentua lo scontro già in atto tra i vecchi notabili del partito, da D'Alema a Veltroni, che predicano realismo ed i “giovani turchi” vicini alla segreteria che non si arrendono all'idea di non poter entrare nella stanza dei bottoni governativi ora che erano arrivati ad un passo dalla meta. Perché crea le condizioni per una clamorosa rivincita di Matteo Renzi che, non a caso, ha già chiarito che la propria linea è di non rincorrere in nessun caso il comico genovese.

Ma, soprattutto, perché cancella di colpo tutto il lavoro di recupero identitario fatto da Bersani in nome dei valori immodificabili della sinistra tradizionale italiana e rende evidente che il Pd è un partito privo di una precisa identità e dove convivono sempre più a fatica componenti che hanno come unico collante il potere e la sua occupazione. Bersani aveva aperto la campagna elettorale dicendo che il suo obbiettivo era quello di organizzare l'area progressista rendendo sempre più netto e chiaro che il Pd era l'erede diretto del Pci e del Pds e dell'intera sinistra italiana di antica estrazione marxista. Non a caso aveva voluto che le primarie fossero aperte a Sel di Nichi Vendola, considerato fratello seperato da far rientrare a pieno titolo nella famiglia. E sul piano delle alleanze elettorali aveva escluso ogni rapporto con il Partito Radicale, considerato estraneo e nemico della tradizione , ed incluso il Psi di Nencini, ritenuto al contrario interno al filone post-marxista. Fedele a questa impostazione ha incentrato la sua campagna elettorale sul lavoro e sulla crescita, cioè su i valori-cadine di una tradizione politica che attribuisce alla classe lavoratrice il compito di incidere in maniera progressista all'interno di una società in cui l'industria è il principale settore produttivo.

Per molti l'impostazione di Bersani era apparsa vecchia, tipica di un funzionario post-comunista di rito emiliano convinto che solo riesumando lo spirito dell'antico frontismo sarebbe stato possibile tenere unita la sinistra ed entrare in un'area del potere la cui porta sembrava addirittura spalancata. I risultati elettorali non hanno premiato la linea di Bersani. Hanno invece dato il successo ad una forza, quella del M5S, che non solo non si pone nel solco della tradizione della sinistra post-marxista ma ne rappresenta l'antitesi più netta. Beppe Grillo non raccoglie solo la protesta e la rabbia popolare contro la casta politica ma è anche (e soprattutto) l'espressione di una visione che considera un pericolo la crescita nella società industrializzata e che punta apertamente ad una società in cui non sia più l'industria (e quindi la classe operaia) a svolgere la funzione propulsiva. Come possono Bersani ed i “giovani turchi” identitari fermi alle grande intese tra sindacati e Confindustria rincorrere chi vuole smantellare gli uni e l'altra perché punta al lavoro minimo assicurato dallo stato ed alla decrescita progressiva verso una società dove l'uguaglianza è assicurata dalla povertà generalizzata? Sbagliano quei dirigenti del Pd che sottovalutano questo contrasto. Perché non considerano che una parte della propria base è ormai contaminata dalla predicazione della decrescita verso il bello della deindustrializzazione. E che di questo passo il partito è destinato ad esplodere e finire in mille pezzi.


di Arturo Diaconale