mercoledì 27 febbraio 2013
Il giorno dopo lo tsunami, sarà il caso di mettersi a fare un po’ di conti. Il vero vincitore di queste elezioni politiche è, senza ombra di dubbio, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. L’analisi si complica quando bisogna individuare gli sconfitti. Uno, forse il principale, risponde al nome di Pier Luigi Bersani, che molti avevano incoronato premier anzitempo, dimenticandosi dell’invincibile tendenza al masochismo della sinistra italiana. Il Pd ha preso tre milioni e mezzo di voti in meno rispetto al 2008 (quando perse nettamente le elezioni), dilapidando il patrimonio di consensi che si era faticosamente costruito durante la stagione delle primarie (non certo grazie al suo segretario).
In qualsiasi “paese normale”, perfino in uno immaginato da D’Alema, Bersani dovrebbe dimettersi e trovarsi un’occupazione seria, dopo aver condotto una delle peggiori campagne elettorali della storia recente dell’umanità. In Italia, con ogni probabilità, Bersani – forte della sua maggioranza bulgara dello 0,36% - proverà ad impossessarsi manu militari di Quirinale, Palazzo Chigi, Camera e Senato, arbitro, guardalinee e giudice di porta. Già visto. Un altro sconfitto dovrebbe essere Nichi Vendola, che ha preso 35mila voti in meno di Fausto Bertinotti nel 2008. E che, solo grazie alla propria furbizia levantina, è riuscito a trasformare questo (scarso) consenso in un pugno di parlamentari di lotta e di governo. Ma se Vendola è andato poco oltre il 3%, che dire della mega-alleanza messa in piedi da Antonio Ingroia? L’ex pm palermitano, dopo aver messo in stato d’accusa il presidente della Repubblica e ingannato l’Onu in Guatemala, nel giro di un paio di settimane, ha ramazzato negli angoli più bui della sinistra estrema e giustizialista soltanto per rimediare uno striminzito 2,2%, utile solo per raggranellare qualche contributo elettorale ai danni dei contribuenti.
Il tutto, naturalmente, senza dimettersi dalla magistratura. Procedendo da sinistra verso il centro, i casi umani e politici di Udc e Fli – cannibalizzati dalla “salita in campo” di Mario Monti – meriteranno un approfondimento in separata sede. Proprio come il caso di “Fare per fermare il declino”, movimento partito per cambiare il mondo ma che – non soltanto a causa del suo dadaista fondatore – non è riuscito ad andare oltre un modestissimo 1,1%. Ma degli orfani gianniniani scriveremo un’altra volta. Perché c’è un altro grande sconfitto che è impossibile ignorare: il Pdl. Nella notte di lunedì, quando qualche berlusconiano assaporava addirittura il sorpasso alla Camera, le facce degli esponenti pidiellini erano un misto di allegria e spensieratezza. Si trattava, in parte, di un atteggiamento comprensibile. Lo ha giustamente scritto Pierluigi Battista sul Corriere della Sera: «Il mondo che ha scelto Berlusconi in tutti questi anni non è stato inghiottito dal nulla. I media non se ne sono accorti. Noi non ce ne siamo accorti. La bolla in cui vive chi fa opinione non se n'è accorta. Ma il centrodestra viveva ancora nel Paese. Devastato. Malconcio. Ma esisteva.
Con il suo linguaggio, i suoi interessi, la sua antropologia che la sinistra snob non ha mai cessato di sbeffeggiare, inanellando in consenso la più deprimente sequenza di rovesci della storia italiana». Parole sacrosante, che non devono però far dimenticare il clamoroso tracollo di consensi che ha subito il Popolo della Libertà dal 2008 ad oggi. Sei milioni e trecentomila voti in meno sono uno sproposito. Sono più o meno il dimezzamento di una base elettorale enorme. Sono quasi 16 punti percentuali in meno, senza che sul mercato della politica ci fossero forze (a parte, parzialmente Grillo) in grado di intercettare questo flusso di elettori in uscita. La vicenda “primarie sì, primarie no” è stata francamente imbarazzante, proprio come la composizione delle liste elettorali. Se Silvio Berlusconi non fosse, ancora, un genio della comunicazione politica e un fenomenale combattente da campagna elettorale (sulle sue capacità di governo stendiamo un velo pietoso), questa débâcle sarebbe potuta essere ancora peggiore.
Ma in ogni caso, invece di strillare alla vittoria o alla mezza vittoria, la classe dirigente del partito dovrebbe essere costretta – visto che spontaneamente proprio non ce la fa – a compiere un profondo esame di coscienza. Le dimissioni in massa non sono sufficienti per chi, con ignavia e incompetenza, ha dilapidato una maggioranza strutturale e consolidata nel paese per trasformarla in una minoranza chiusa e incapace di intercettare i cambiamenti della società. È tempo di ricostruire il centrodestra italiano, partendo dalla fondamenta. Ma prima è necessario radere al suolo le macerie che impediscono qualsiasi progetto di rinnovamento. Da queste elezioni politiche escono sconfitte, in misura più o meno accentuata, tutti coloro che si richiamano (o si sono richiamati) al centrodestra. Non fatevi ingannare da chi vi vuole far credere di avere vinto. Abbiamo perso tutti. È forse è meglio così.
di Andrea Mancia e Simone Bressan