domenica 20 gennaio 2013
Sono trascorsi ventitré anni dalla caduta del Muro di Berlino. Era il 9 novembre 1989, io avevo quindici anni e tante cose su quella storia, sul comunismo e sulla seconda guerra mondiale ancora non le sapevo, ma le sensazioni, la gioia, la bellezza di quel giorno le ricordo benissimo. Un’epoca si chiudeva per sempre e tutto sembrava possibile. L’Occidente, i suoi valori, il suo modello filosofico, giuridico e comportamentale aveva vinto e si sarebbe diffuso senza incontrare ulteriori ostacoli. Avevamo vissuto per decenni sapendo quale fosse il bene e il male, chi fossero gli amici e i nemici, ciò in cui credevamo e ciò che dovevamo combattere. Avevamo delle certezze, delle convinzioni radicate, una certa consapevolezza di noi stessi, ed era paradossalmente tutto più semplice. Era bello sapere da che parte stare potendola anche criticare e contestare; era bella L’Europa che si poteva solo immaginare, era bello avere un sogno da realizzare.
Ora tutto questo è finito. Gli ultimi venti anni di storia mondiale si sono portati via molto più dell’ottimismo - forse superficiale - di chi ha creduto che bastasse sconfiggere il comunismo sovietico per spianare la strada alle conquiste economiche e sociali dell’Occidente. Ora sappiamo che il mercato, da solo, non produce automaticamente democrazia, progresso, diritti, ed abbiamo anzi dovuto imparare che ci si può trasformare in una superpotenza economica quanto politicamente e socialmente arcaica grazie al capitalismo di stato ed ai suoi schiavi. Ora sappiamo che la finanza può benissimo non essere un portato del libero mercato, una proiezione dell’economia reale, ma un mondo astratto con una vita propria e proprie esclusive regole, in grado tuttavia di determinare la bancarotta di interi paesi. Ora sappiamo che una moneta comune non fa di un gruppo di paesi una unione politica di stati, e sappiamo anche che i comunisti erano i migliori nemici che potessimo avere, i più razionali e ragionevoli, gente che governava col terrore ma non avrebbe mai fatto del terrorismo un’arma di distruzione di massa. Ma soprattutto, ora sappiamo che a fare la differenza non è mai l’entità della forza della minaccia che incombe su di noi, quanto la nostra intrinseca debolezza, la manifesta incapacità politica e culturale in cui da tempo è piombato il Vecchio Continente. Perché? Perché non abbiamo saputo portare a compimento un progetto che è stato pensato quando davvero sembrava impossibile, quando le macerie della seconda guerra mondiale fumavano ancora? Quanto corrisponde l’Europa ideata dagli uomini che a pochi anni dalla fine del conflitto hanno saputo stringersi la mano e lasciarsi alle spalle l’odio, il rancore, la vendetta, il dolore - come i giovani italiani, francesi, inglesi e tedeschi che invece di spararsi addosso si ritrovarono insieme a sognare negli ostelli e per le strade delle capitali europee – a quella in cui viviamo oggi?
Troppo poco. Perché quegli uomini e quei giovani volevano molto più di un mercato unico e di una moneta comune. Volevano un insieme di principi e valori universali da rappresentare, diffondere e difendere, e volevano un obiettivo comune, una unione di stati che guardasse nella stessa direzione e costituisse un esempio di civiltà e progresso. Loro appartenevano a quella generazione di statisti che pensavano ed agivano a lungo termine, non solo in prospettiva delle rielezione. E forse il problema è solo questo. Gli uomini. I leader europei che si sono susseguiti alla guida dei propri stati e delle istituzioni dell’Unione da almeno due decenni a questa parte. Se fossero stati all’altezza a quest’ora i cittadini europei avrebbero una Costituzione, un Parlamento democraticamente eletto - e non una Commissione – a fondamento del processo legislativo e decisionale, una Banca centrale legittimata a difendere gli stati membri dagli attacchi della speculazione finanziaria, una politica estera comune e molto altro.
Invece si ritrovano senza una Carta fondante, ancora praticamente all’oscuro dei meccanismi decisionali delle istituzioni europee, reciprocamente sospettosi sulle responsabilità di determinati stati membri riguardo la crisi e la speculazione finanziaria, impotenti di fronte alla manifesta incapacità dei propri leader di trovare una strada comune per fronteggiare qualsiasi emergenza, da quella economica a quelle internazionali, inesorabilmente divisi dalla rapidità e irrazionalità del processo integrativo con i paesi che fino a vent’anni fa facevano parte del blocco sovietico, e sostanzialmente sfiduciati riguardo il futuro e le prospettive dell’Unione. Bel risultato. Alla cui responsabilità nessuno può sottrarsi. Non la Germania e la Francia, che non hanno voluto rinunciare a primeggiare, economicamente e politicamente, al contempo però disinteressandosi, ad esempio, delle conseguenze inevitabili dell’ingresso indiscriminato di paesi economicamente e socialmente arretrati, salvo poi imporre, oggi che quelle conseguenze si sono materializzate, la loro personale visione di exit strategy. Non certo l’Italia, che ha smaniato per entrare nell’euro tra i primi quando verosimilmente non vi erano ancora le condizioni necessarie per farlo, e non si è preoccupata di attuare le riforme coerenti ai patti e agli accordi firmati in Europa, quelle mancate riforme che oggi avrebbero protetto il nostro debito dalla speculazione e dal disonore. Non certo la Grecia, la Spagna e tutti quei paesi che hanno guardato all’Europa non come un progetto comune alla cui realizzazione contribuire dinamicamente, ma come una manna dal cielo su cui scaricare sprechi e inefficienze interne.
Nessuno è innocente. E se oggi piangiamo e soffriamo la crisi come non accadeva dalla seconda guerra mondiale, è perché non abbiamo costruito un senso comune dell’essere europeo; perché non condividiamo davvero gli stessi valori, la stessa idea di democrazia, di economia, di progresso, di ruolo nel mondo. Ecco perché non abbiamo una Costituzione e nessuno solleva un problema a riguardo. Perché c’è ancora un lunghissimo lavoro propedeutico per arrivarci, solo che il tempo è tiranno e di grandi uomini in grado di capire, incarnare e animare un nuovo spirito europeo, purtroppo non se ne vedono.
di Valentina Meliadò