I magistrati in politica e la questione morale

sabato 29 dicembre 2012


Lo scandalo non è costituito dai magistrati che entrano in politica. Perché sono cittadini come tutti gli altri. Ed hanno il pieno diritto di manifestare liberamente le proprie opinioni e di sottoporle al giudizio del corpo elettorale. Lo scandalo è che i magistrati entrino in politica con il paracadute dell’aspettativa. Cioè con l’assicurazione che il giorno in cui decideranno di ritirarsi dall’agone politico per stanchezza, disillusione o per semplice mancata rielezione parlamentare, potranno tornare a vestire la toga come se nulla fosse successo. Ed, anzi, grazie al fatto che la carriera dei magistrati è automatica e procede per anzianità, ritrovarsi con una funzione, un ruolo ed, ovviamente, uno stipendio superiori a quelli lasciati a suo tempo per l’avventura politica. Si dirà che tutti i funzionari pubblici godono dell’aspettativa. E che i magistrati usufruiscono di un diritto acquisito che riguarda l’intera pubblica amministrazione e non può essere considerato come una sorta di privilegio distintivo della casta delle toghe.

L’osservazione è giusta. Ma parziale. Non tiene conto della singolare pretesa dei normali cittadini di essere giudicati per le proprie azioni che rientrano nelle fattispecie dei codici penali e civili in maniera equanime. E non prende minimamente in considerazione il bizzarro timore degli stessi cittadini normali che un magistrato rientrato in carriera dopo un periodo trascorso come un esponente politico di parte possa inquisire e giudicare non in maniera equanime ma condizionata dall’esperienza consumata sui banchi parlamentari. Perché mai queste singolari pretese e questi bizzarri timori della stragrande maggioranza degli italiani debbono soggiacere di fronte al diritto acquisito dei magistrati e dei funzionari pubblici di godere dell’istituto dell’aspettativa che garantisce loro carriera, posti e stipendi? Nessuno è in grado di fornire una risposta credibile e di buon senso a questo interrogativo.

L’unica concreta e realistica è che anche i magistrati tengono famiglia e non si capisce per quale curiosa ragione dovrebbero rinunciare al comodo paracadute offerto loro dalle norme per conservare ed accrescere la propria personale sicurezza economica e sociale. In questa considerazione non fa neppure capolino un qualsiasi accenno al tema della pubblica moralità. Che a quanto pare vale e deve valere per chiunque decida di interrompere il proprio mestiere per dedicare una fase della propria vita all’attività politica. Ma non vale e non può valere per chi fa il grande salto con garanzia di ritorno all’indietro dalla magistratura al Parlamento.

Perché se si osa sollevare il tema della pubblica moralità nei confronti di chi tiene famiglia ammantata con la toga si rischia l’accusa di attentare alla indipendenza ed all’autonomia di quella particolare categoria della pubblica amministrazione che per misteriose ragioni costituzionali ha stipendi intoccabili anche dai tagli di spesa imposti dalla superiori ragioni morali della pubblica austerità. Sollevare la questione morale sul paracadute dell’aspettativa dei magistrati, invece, è assolutamente necessario. Perché se è impossibile modificare per legge il privilegio delle toghe si può e di deve almeno avviare una azione di pressione morale sui magistrati decisi a entrare in politica affinché decidano autonomamente di rinunciare ai privilegi che danneggiano la giustizia e la loro stessa credibilità. In fondo che ci vuole? Basta che invece di chiedere l’aspettativa rassegnino le dimissioni. Grasso, Ingroia, Dambruoso, date l’esempio!


di Arturo Diaconale