Non illudiamoci il centrodestra è morto

sabato 22 dicembre 2012


Lasciate stare le elezioni. Ogni tanto, quelle, si possono anche perdere. Ci sono addirittura sconfitte (Barry Goldwater alle presidenziali Usa del 196) capaci di essere molto più salutari di certe vittorie. E ci sono vittorie (Berlusconi alle Politiche 2008) che suonano molto più come il canto del cigno che come una marcia trionfale. Nel mezzo ci sono elezioni normali e battaglie culturali. Queste ultime sono le più importanti perché capaci di segnare culturalmente la storia di uno schieramento politico e di delinearne i confini ben oltre la semplice conversione dei voti in seggi parlamentari. Non c’è dubbio, ad esempio, che quando il centrodestra perse le elezioni del 2006 per una manciata di voti, si innescò nel paese un processo di autocoscienza dell’elettorato liberal-conservatore capace in poco tempo di riempire piazze, suscitare entusiasmi nuovi, rivincere le elezioni. Quel blocco sociale e politico dato per sconfitto - e di molto - dal 90% dei sondaggisti e degli opinionisti nazionali aveva dimostrato in quel frangente di essere molto più maturo degli eletti chiamati a rappresentarlo.

La vittoria di una battaglia culturale moderna, inclusiva, maggioritaria volta alla creazione di una “Right Nation” italiana capace di rappresentare la maggioranza silenziosa di questo paese è stata per qualche tempo a portata di mano. Nel 1994 Forza Italia nasceva come un grande esperimento fusionista con anime diverse (il pentapartito della prima repubblica, la cultura liberale, quella cattolica, moderata, i movimenti riformisti) capaci di fare sintesi attorno a programmi comuni. Gli alleati della Destra Nazionale (An ma non solo), quelli con spinte più localiste (Lega Nord e movimenti autonomisti), lo sparuto blocco centrista condividevano basi comuni esili ma esistenti e un progetto politico che poteva essere sintetizzato nel tentativo di dare voce e rappresentanza a quel “popolo dei liberi e forti” già tratteggiato da Don Sturzo agli albori della nostra democrazia. La tornata elettorale del 2006 aveva certificato l’esistenza di quel blocco sociale nonostante le mille difficoltà e aveva posto le basi per la costruzione di qualcosa di più grande e duraturo. Si aprì in quei mesi la possibilità non di una federazione, non di una coalizione ma di un vero e proprio tentativo di fondazione di un soggetto politico simile ai Conservatori inglesi, ai Popolari tedeschi o ai Repubblicani americani. Diciamoci la verità: è finita qui.

La barca del fusionismo italiano si è schiantata sui contrapposti egoismi e su un partito, il Pdl, che doveva essere motore dell’aggregazione ed è diventato acceleratore della divisione. Nel 2008 ad abbandonare il centrodestra sono stati Pierferdinando Casini e i centristi. Poi è stata la volta di Gianfranco Fini. Adesso Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto. Al netto delle alchimie elettorali, delle alleanze possibili, di quel che la matematica spiega meglio della politica, quel che rimane di questi anni è il senso di una rivoluzione mancata. Che è stata prima di tutto culturale e poi, a cascata, politica. Non è questa la sede per analizzare a fondo le ragioni che hanno portato il centrodestra italiano a questo punto ma va detto che noi, convinti sostenitori del percorso opposto, usciamo con le ossa rotte e le idee confuse. A vincere sono quelli che continuano a preferire un consenso aggregato attorno a poche persone e a idee-forza novecentesche piuttosto che prediligere un processo di elaborazione politica capace di dare a questo popolo moderato, liberale, conservatore una rappresentanza degna di tal nome.

Sei anni dopo la consapevolezza che una Right Nation Italiana esisteva ci ritroviamo al punto di partenza: un blocco berlusconiano raccolto attorno a Palazzo Grazioli, una destra che si ricaccia nei confini poco lungimiranti di un anti-europeismo nemmeno paragonabile a quello anglosassone e nel vecchio cliché del complottismo finanziario (riportando in auge la diffidenza verso il libero mercato di “Anche se tutti noi noi”), una Lega che massimizzerà la sua capacità di protesta ed emarginerà i suoi uomini di governo. Fuori da questa pazza alleanza ci saranno i liberali montiani, i liberisti di giannino, il centro irrilevante di Casini, Fini e Montezemolo. Lasciando per un secondo da parte i leader, gli elettori di questi movimenti in Inghilterra sceglierebbero Cameron, negli Stati Uniti il Gop, in Spagna Rajoy e in Germania la Cdu. Tutti insieme varrebbero più del 40% e con una leadership credibile vincerebbero agevolmente le prossime elezioni, indipendentemente dal sistema elettorale scelto. Il fallimento di questa classe politica di centrodestra sta tutto qui: avevano in mano una maggioranza strutturale e sono riusciti a trasformarla in un una minoranza chiassosa e impresentabile. Noi che ci avevamo creduto, abbiamo certamente perso, ma questi presunti leader non ci fanno la figura degli statisti. L’ultimo, adesso, spenga la luce. Sempre che qualcuno l’avesse mai accesa.


di Andrea Mancia e Simone Bressan