martedì 11 dicembre 2012
L'irritazione e la rabbia per la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi non riguarda affatto la persona del Cavaliere. Anche chi lo accusa di aver provocato il disastro del paese dal 2008 allo scorso anno sa bene che si tratta di una tragica bugia. Perché l'Italia non paga l'ultimo berlusconismo ma i quattro decenni precedenti segnati dal patto irresponsabile tra capitalismo familiare, confederazioni sindacali e grandi partiti clientelari tesi a scaricare sullo stato e sulle future generazioni i costi insopportabili dello stato burocratico-assistenziale.
E non è neppure vero che l'immagine del Cavaliere getta una ombra di ridicola instabilità sul paese agli occhi delle cancellerie europee o dei mercati internazionali. Perché sul leader del Pdl si appuntano i pregiudizi stranieri che riguardano non la persona ma l'Italia nel suo complesso, cioè un paese che non ha saputo recuperare in settant'anni la sovranità, l'identità e l'indipendenza perdute con la sconfitta rovinosa nella seconda guerra mondiale e che viene sempre visto come il “ventre molle” dell'Europa. E non perché la seconda potenza industriale europea lo sia effettivamente, ma perché il pregiudizio anti-italiano serve a sostenere gli interessi nazionali di Germania e Francia e dei loro satelliti in una Europa priva di una propria identità politica. L'irritazione e la rabbia nei confronti della ridiscesa in campo di Berlusconi nasce, allora, da una ragione diversa. Che è rappresentata dalla pretesa, bizzarra in qualsiasi altro paese del mondo ma perfettamente comprensibile nel nostro, secondo cui la sinistra e chi fa parte del sistema di alleanze dei post-comunisti dovrebbe avere per diritto storico (o forse anche divino) il monopolio esclusivo della politica nazionale. Ciò che irrita e suscita sdegno, condanna ed esecrazione (la formula politicamente corretta degli anni '70), in sostanza, è che possa tornare a riaffiorare una qualche alternativa politica alla sinistra italiana. In pratica, che il Pd possa avere un antagonista, magari azzoppato per via giudiziaria, demonizzato per via mediatica, indebolito per via economica e finanziaria.
E che questo avversario, benché messo in ginocchio, svillaneggiato e ridicolizzato in lungo ed in largo, abbia addirittura l'ardire di rialzare la testa e riscendere in campo per giocare la partita elettorale. Non è Berlusconi, allora, il vero bersaglio della irritazione e dello stupore indignato. È il popolo del centrodestra. Quello che un tempo, nella sua qualità di “maggioranza silenziosa”, non aveva diritto ad alcuna presenza politica tranne la misera possibilità di delegare alla Dc il compito di contenere al minimo la straripante egemonia politica e culturale della sinistra. Lo stesso popolo che ha trovato per vent'anni il proprio rappresentante in Silvio Berlusconi, un imprenditore imprestato occasionalmente e senza alcuna preparazione di base alla politica. E che oggi, in assenza di un leader nuovo in grado di sostituire il Cavaliere (avrebbe potuto essere Matteo Renzi, lo stesso Mario Monti, Gianfranco Fini se non si fosse comportato da arrogante babbeo e Angelino Alfano se avesse avuto il tempo giusto di crescita e maturazione) è costretto a ritrovarsi ed a riconoscersi in Berlusconi se non vuole tornare ad essere una maggioranza irrilevante oltre che senza diritto alla parola. Ciò che va in scena in questi giorni, dunque, non è il ritorno del Cavaliere, ma la pretesa della sinistra e delle forze ad essa subalterne (a partire dai cespugli casiniani e casinisti del centro) di avere il diritto di vincere le prossime elezioni per assenza di avversario. Attraverso il Cavaliere, dunque, il popolo del centrodestra torna in campo. Forse non per vincere. Ma, di sicuro, per giocare la partita.
di Arturo Diaconale