Ingroia si presenti alle elezioni

giovedì 6 dicembre 2012


Dal lontano Guatemala, Antonio Ingroia ha bollato come “sentenza politica” la decisione della Corte costituzionale di accogliere il ricorso del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contro il comportamento tenuto dalla procura di Palermo nella vicenda delle intercettazioni delle telefonate tra il Capo dello stato e l’ex ministro Nicola Mancino. Dai vicini palazzi del potere la replica ufficiosa alla affermazione del pm palermitano, ora impegnato in una missione internazionale in Centro America, è stata che la la “risposta politica” è stata la logica conseguenza di una “inchiesta politica”. Ovvero, “chi la fa la aspetti! Ora è facile prevedere che la “sentenza politica” relativa ad una “inchiesta politica” troverà il suo logico sbocco politico nella prossima campagna elettorale. Chi ha sostenuto a spada tratta il senso ed il valore “politico” della inchiesta dei magistrati di Palermo sulla presunta trattativa tra stato e mafia non perderà l’occasione di usare come arma elettorale la sentenza della Corte costituzionale presentandola come la conferma più evidente e clamorosa della volontà delle massime istituzioni di nascondere i “misteri” del Quirinale e le trame oscure antiche e recenti tra uomini dello stato ed organizzazioni mafiose. Al tempo stesso, chi difende la sacralità dei massimi vertici della Repubblica userà la decisione della Corte costituzionale per respingere l’offensiva dei giustizialisti più intransigenti e fondamentalisti e denunciare il carattere strumentale degli attacchi al Quirinale. Tutto questo non va visto necessariamente come un male. Perché se l’inchiesta dei pm di Palermo è stata “politica” e la decisione della Consulta la logica risposta “politica” alla inchiesta stessa, è addirittura un bene che lo sbocco naturale di una partita così fortemente caratterizzata in senso politico sia la campagna elettorale intesa come il tribunale di ultima istanza della volontà popolare. 

È giusto, in sostanza, che siano gli elettori a farsi una convinzione, a scegliere, a decidere ed a dipanare la matassa, premiando o bocciando chi ha dato il via al meccanismo tutto politico di una inchiesta che ha prodotto la reazione del Capo dello stato e la decisione della Corte costituzionale. Ingroia, in sostanza, non può restare in Guatemala. Deve tornare in Italia e partecipare in prima persona alla competizione elettorale sostenendo le ragioni che lo hanno spinto a dare battaglia ai massimi vertici istituzionali di oggi e del passato. Se vuole essere conseguente con la sua costante rivendicazione dei propri diritti di cittadino, primo fra tutti quello d’opinione, ha il dovere morale di rivolgersi direttamente agli italiani. Ma senza la copertura e l’autorità che gli derivano dalla toga di magistrato. Rinunciando al privilegio di poter garantire le proprie convinzioni dietro lo scudo protettivo di un ruolo intoccabile, insindacabile e privo di una responsabilità personale di qualsiasi tipo.Il pm palermitano si deve accontentare del già ampio privilegio di poter contare sull’ampia notorietà acquisita grazie alla propria attività di funzionario dello stato. Il ché, oggettivamente, non è un privilegio di poco conto. Ma deve avere il coraggio di giocare la partita delle proprie opinioni senza lo scudo protettivo assicurato dalla funzione di garante e custode della legalità. Come ogni altro cittadino che è convinto di avere qualcosa da dire al paese e decide di sottoporlo al vaglio del corpo elettorale. Certo, per Ingoia non deve essere facile rinunciare alla missione internazionale, alla propria carriera di magistrato fondata su scatti automatici e sostenuta dall’alta visibilità mediatica assicurata dalle proprie inchieste. Ma in democrazia funziona così! O, meglio, dovrebbe funzionare così!


di Arturo Diaconale