Bersani, Renzi e la metafora Ilva

venerdì 30 novembre 2012


Ma quale è lo specchio più significativo del paese? Il dibattito conclusivo delle primarie del Pd tra Bersani e Renzi, trasformato in liturgia istituzionale grazie alla trasmissione effettuata con grande enfasi e con la massima deferenza sulla rete ammiraglia del servizio pubblico radiotelevisivo? Oppure lo stabilimento dell’Ilva fermato dalla magistratura, occupato dagli operai ed infine devastato dal tornado che si è abbattuto sull’impianto siderurgico provocando morte e distruzione?

La domanda è fin troppo retorica. Ed impone una risposta fin troppo scontata. Che trasforma lo spettacolo rilucente delle primarie trasmesse sulla tv pubblica nella cortina fumogena tesa a nascondere all’opinione pubblica nazionale la reale e spietata realtà del paese rappresentata dalla morte della siderurgia italiana. Ma se si vuole uscire da questo schema troppo rigido basta chiedersi quanto del dramma dell’Ilva, inteso come simbolo della crisi dell’industria italiana, sia risultato presente nel dibattito televisivo tra gli aspiranti premier di un Partito democratico che ormai si sente già investito del compito di guidare il paese nella prossima legislatura.

Certo, Renzi ha usato il caso Ilva come pretesto per denunciare le responsabilità dell’attuale gruppo dirigente del Pd nella fallimentare politica industriale degli ultimi vent’anni. E Bersani ha cercato di difendere l’operato suo e dei suoi compagni di partito all’insegna del principio che nessuno è perfetto. Ma né l’uno, né l’altro hanno voluto cogliere il significato profondo della devastazione meteorologica, industriale, giudiziaria dell’Ilva, cioè la morte dell’industria di trasformazione nazionale. E, soprattutto, né l’uno, né l’altro hanno saputo fornire una qualsiasi vaga indicazione di come il paese possa andare avanti ed uscire dalla crisi dopo aver preso atto della necessità di individuare un nuovo modo di sviluppo e di crescita visto che quello industriale, incentrato sulle intese all’italiana tra famiglie proprietarie, forze politiche e confederazioni sindacali, si è inesorabilmente esaurito.

In questa luce, allora, l’apoteosi televisiva delle primarie Pd non rappresenta più la cortina fumogena buttata sugli occhi degli italiani per nascondere la rappresentazione più cruda e realistica della crisi nazionale. È, al contrario, la conferma più evidente e clamorosa della vastità e drammaticità di una crisi che non solo colpisce il settore industriale che per l’intera storia dello stato unitario ha rappresentato il simbolo della modernizzazione del paese ma che, attraverso l’incapacità di trovare soluzioni convincenti da parte di chi si propone alla guida del futuro governo, appare totalmente irrisolvibile.

Naturalmente nessuno avrebbe potuto pretendere da Bersani e Renzi di indicare in pochi minuti quale dovrebbe essere il modello di sviluppo e di crescita destinato a sostituire quello esaurito della grande industria perennemente oscillante tra l’assistenza e la presenza pubblica e segnata dall’inciucio perenne tra padroni, sindacati, dirigenti e politici. Ma un segnale, un barlume, una qualche e pur minima indicazione avrebbe dovuto esserci. Perché la conclusione televisiva delle primarie non era una sorta di “Ruota della fortuna” in cui chi vince porta a casa dei soldi, ma l’occasione per sottoporre al giudizio degli italiani le strategie migliori per fermare le devastazioni e la rovina in atto. Questa occasione non è andata persa. Al contrario! Ora sappiamo che né Bersani, né Renzi hanno la più minima idea di come uscire dalla crisi. Il ché è un bene per la chiarezza. Ma un dramma per il futuro.

 


di Arturo Diaconale