martedì 6 novembre 2012
C’è il criterio ideologico. Per cui chi si fa il tifo per Obama perché lo si considera campione della propria parte politica e si parteggia per Romney in quanto alternativa alla parte politica avversa. C’è il criterio estetico. Per cui Obama piace perché sembra un attore nero e Romney uno bianco. C’è il criterio del politicamente corretto. Per cui Obama è il Kennedy del terzo millennio. E c’è il criterio del politicamente scorreto. Per cui Romney è la reincarnazione di Reagan. Ed infine c’è quella della simpatia personale prodotta dai media che, essendo per la stragrande maggioranza ideologicamente schierati, esteticamente indirizzati e politicamente super corretti, favorisce nel nostro paese una sorta di plebiscito in favore della conferma dell’attuale Presidente Usa. Accanto a tutti questi criteri, che sarebbero giustificati se anche gli italiani dovessero votare per scegliere tra Obama e Romney, ci sarebbe un ultimo criterio da adottare. L’unico ad avere un senso realistico visto che , a dispetto di quanto potrebbe sembrare, al nostro paese non è concesso di partecipare alle presidenziali americane. Ed è quello del giudizio sui candidati alla presidenza Usa espresso sulla base della valutazione dell’interesse nazionale. Naturalmente il nostro e non quello degli Stati Uniti.
Questo criterio non cancella ed esclude tutti gli altri. Si limita a collocarli in seconda linea. Perché pone come prioritario l’interrogativo su quali conseguenze potrebbero derivare al nostro paese dall’elezione dell’uno o dell’altro dei candidati democratico e repubblicano.
Esiste, naturalmente, il rischio che a questo interrogativo si risponda sempre sulla base dei criteri e dei pregiudizi finiti in seconda linea. Per evitare un pericolo del genere non c’è altra strada che limitare la valutazione delle conseguenze sulla questione che ci riguarda e ci tocca più da vicino, cioè la politica mediterranea degli Stati Uniti. Il resto, come ad esempio se sia più affidabile Obama o Romney per la ripresa dell’economia Usa e mondiale, è del tutto oscuro. Ma sulla politica mediterranea la faccenda è diversa. Perché da un lato abbiamo sotto gli occhi la sequela di sciocchezze, errori, sottovalutazioni e scelta sbagliate compiute dalla diplomazia americana nei confronti dell’Europa e dei paesi arabi. E dall’altro abbiamo bene in vista il buco nero di strategia, progetti, intendimenti che segna il programma elettorale del candidato repubblicano sul tema dei rapporti con l’Europa e con la sponda meridionale del Mediterraneo.
Quale scelta, allora, tra il fallimento ed il nulla? A questa domanda non può esserci una risposta. O meglio, l’unica risposta possibile passa attraverso una realistica e concreta presa d’atto da parte dell’opinione pubblica italiane e delle sue classi dirigenti che il nostro paese è un alleato fedele e riconoscente degli Stati Uniti ma è solo un alleato e non un componente della sua federazione. E, naturalmente, non è neppure un paese che ha delegato una parte della propria sovranità alla Casa Bianca. Non si tratta di risvegliare alcun istinto nazionalista. Si tratta, al contrario, di liberarsi da quella subalternità politica e culturale che non favorisce affatto la possibilità di partecipare a realtà sovranazionali ormai indispensabili (Onu, Nato, Ue) ma che è stata sempre interpretata nel nostro paese come un comodo modo per scaricare sugli altri le nostre responsabilità. Il dilemma, quindi, non è la scelta tra Obama o Romney. E’ tra rimanere subalterni e non avere responsabilità o recuperare autonomia ed essere alleati affidabili e responsabili. Con Obama o con Romney. Fa lo stesso.
di Arturo Diaconale