martedì 23 ottobre 2012
Il Ministro della Pubblica Amministrazione Filippo Patroni Griffi ha annunciato che non ci saranno deroghe al decreto legge di riordino delle province italiane. Il criterio scelto per la riduzione e l’accorpamento è quello numerico. E non saranno le «resistenze localistiche», come ha detto Patroni Griffi, a farlo modificare. Ma qual’è la ragione per cui il governo dei tecnici ha scelto il criterio numerico per compiere una riforma epocale come quella della riduzione delle province del nostro paese? Perché, come ai tempi dei tagli lineari di Giulio Tremonti, il criterio numerico è quello più facile e più rapido da applicare. È necessario ridurre le spese dello stato? Si taglia il dieci per cento ad ogni amministrazione. Bisogna ridurre il numeri delle province per dare un segnale concreto di volontà di risparmio nei costi delle strutture statali? Si accorpano quelle che hanno meno di 350mila abitanti ed una estensione inferiore ai 2.500 chilometri quadrati. Così da 86 le province, comprese le città metropolitane, scendono a 50. Ed il segnale di efficienza, rapidità e concretezza nell’azione di riduzione delle spese è dato.
All’opinione pubblica e, soprattutto, ai severi censori dei media che chiedono in continuazione manifestazioni tese a riportare morale e virtù nelle istituzioni nazionali. Il criterio numerico sarà pure facile e rapido da applicare, ma è anche ottuso. Come quello dei tagli lineari. Non tiene conto delle incredibili peculiarità storiche, culturali, economiche di un territorio come quello italiano. Forse il criterio numerico poteva andare bene per disegnare i confini dell’Iraq. Ma se viene applicato in Italia e mette insieme Pisa e Livorno, la Tuscia e la Sabina, Teramo e L’Aquila, Belluno e Sondrio e via di seguito, dimostra non tanto di essere assolutamente inadeguato ma di essere stato scelto non per la facilità e rapidità di applicazione ma solo per nascondere l’assenza di qualsiasi analisi ed approfondimento di una questione, come quella della riforma delle autonomie, che non può essere risolta come se l’Italia fosse il deserto arabico. Il criterio numerico, allora, copre un vuoto di studio e di discussione a cui il governo dei tecnici e dell’emergenza non deve badare. Ma le ragioni dell’emergenza non possono portare a produrre danni maggiori di quelli che si vorrebbero risolvere.
Quanto costerà, in termini di spesa dello stato e di spesa sociale, accorpare le prefetture, le questure, le motorizzazioni e tutti gli altri uffici secondo lo schema delle nuove province? E perché mai gli accorpamenti tra province sono stati previsti all’interno delle attuali regioni e non secondo la logica del territorio? Che dire, poi, del fatto che il riordino non riguarda le province delle regioni a statuto speciale? Il ministro Patroni Griffi ha sostenuto che il decreto è solo il primo passo. «Bisognerà andare avanti riflettendo sulle Regioni e sul numero dei comuni: 8 mila sono troppi e la metà ha meno di cinquemila abitanti». Ma se la riflessione, come è capitato per le province, dovesse portare il governo ad applicare in nome dell’emergenza il criterio ottuso del numero, è meglio che al paese vengano risparmiate riflessioni del genere. Semmai sarebbe più opportuno che i tecnici dei ministero della Pubblica Amministrazione rinuncino alla matematica e diano una ripassata alla storia. Magari partendo dalla divisione dell’Italia in province fatta prima da Augusto, poi da Adriano e successivamente da Costantino. Che non erano tecnici. Ma almeno erano consapevoli che i numeri, senz’anima, fanno solo disastri.
di Arturo Diaconale