venerdì 19 ottobre 2012
La rottamazione è come l’epurazione. O è una velleità che rimane sulla carta per oggettive difficoltà di realizzazione. O è una valanga che una una volta avviata non si può o più fermare, visto che ogni rottamatore rischia di trovare chi lo vuole rottamare, proprio come l’epuratore trova sempre uno più puro che pretende di epurarlo.
Velleità o valanga? L’impressione è che il sasso lanciato da Matteo Renzi abbia messo in moto un movimento franoso che inizialmente sembrava destinato a far crollare solo una parte del vecchio gruppo dirigente del Partito democratico ma che adesso sembra destinato ad estendersi all’intera classe politica italiana.
È un bene o un male? In realtà è un fenomeno che in una democrazia corretta a matura dovrebbe essere fisiologico. Se il nostro sistema politico non fosse rimasto quello della Prima repubblica del parlamentarismo partitocratico e si fosse modellato su una qualche forma di presidenzialismo, il rinnovo di classe dirigente sarebbe stato automatico e naturale. Magari Silvio Berlusconi sarebbe riuscito a farsi eleggere alla guida dell’esecutivo per due mandati di seguito. Ma dopo sarebbe uscito di scena, costringendo una larga parte dell’intera classe politica della maggioranza e dell’opposizione a fare altrettanto. Né più, né meno di come capita regolarmente in Francia, negli Stati Uniti e nelle democrazie dove l’alternanza ed il cambiamento vengono favorite (e imposte) dal sistema presidenziale.
In Italia, invece, il rinnovamento non previsto dalle norme istituzionali non è affatto fisiologico. Assume sempre e comunque l’aspetto della forzatura e della rottura traumatica. Lo stesso Renzi, che pure deve al termine la propria fortuna politica, ha definito la rottamazione una «frase bieca, truce e volgare» che, però, rappresenta «l’unica soluzione per affermare l’esigenza di cambiamento radicale necessario al paese». Da noi, in sostanza, se si vuole far nascere una nuova classe politica non si può ricorrere al parto naturale ma si deve usare l’invasività chirurgica del parto cesareo.
Il metodo cruento usato per provocare il cambiamento rappresenta contemporaneamente un freno ed un moltiplicatore del fenomeno. È un freno perché suscita la reazione di chi nutre una istintiva ripulsa per la la democrazia brutale. Ma è un moltiplicatore per chi scopre che rinnovare attraverso la rottamazione consente di scavalcare tutti gli ostacoli posti dall’eredità della Prima e della Seconda repubblica estendendo il metodo non ad un solo partito o alla sola sinistra ma all’intero quadro politico nazionale. Oggi Renzi rottama D’Alema, Bindi, Marini e costringe Veltroni ad autorottamarsi e Giovanna Melandri a ritirarsi alla presidenza della Fondazione del Maxxi di Roma. Ma al tempo stesso Maroni rottama Formigoni e la valanga si estende da sinistra a destra lasciando intendere che non risparmierà nulla e nessuno.
Perché mai, ad esempio, se il ricambio generazionale deve riguardare i D’Alema, le Bindi, i Veltroni, possono essere risparmiati i Fini ed i Casini che di quella generazione fanno parte per ragioni anagrafiche e politiche? E che dire di Antonio Di Pietro che in termini politici ha la stessa età dell’antagonista a cui deve gran parte della propria fortuna, cioè Silvio Berlusconi? E Vendola ? Ed i ragazzi di via Milano (cioè i giovani missini degli anni’70 diventuti “colonnelli” e “generali” nel trentennio successivo?
Non c’è limite, allora, alla valanga rottamatrice. Ed è un bene. Ma solo alla condizione che i rottamatori non si limitino a cacciare i vecchi per prendere il loro posto ma fissino delle regole precise per la loro futura sostituzione. La democrazia della brutalità non serve a cambiare, ma solo a perpetuare i vizi del passato.
di Arturo Diaconale