sabato 22 settembre 2012
Anni ed anni di giustizialismo da strapazzo e di moralismo d’accatto hanno prodotto una doppia distorsione. La prima è credere che il peccato sia sempre un reato. La seconda è pensare che, essendo il reato penale sempre personale, si debba perseguire sempre e comunque il peccatore e mai affrontare il peccato. Il caso Lazio è un esempio perfetto di questa doppia distorsione. I giornali e le tv in cerca di copie e di audience, che sono i portatori principali del giustizialismo da strapazzo e del moralismo d’accatto, puntano solo sui peccatori pretendendo che paghino il loro reato prima subendo la pena della gogna popolare e poi offrendo la testa alla ghigliottina del circo mediatico-giudiziario. Del peccato, invece, si disinteressano totalmente.
Le pagine dei quotidiani e gli schermi televisivi grondano sdegno, condanna, esecrazione, indignazione ed ogni altro sentimento di rabbia nei confronti di “Batman” Fiorito, di “Anna Magnani” Polverini, di “Ulisse” De Romanis, di “Mefistofele” Battistoni, così come in passato hanno grondato di eguali sentimenti per Formigoni, Lombardo, Penati o qualsiasi altro pubblico peccatore emerso dalle cronache giudiziarie degli ultimi anni. Ma del peccato in sé, quello che produce i capri espiatori da esporre al ludibrio popolare, nessuno dei giustizialisti e dei moralizzatori in servizio permanente effettivo si preoccupa di parlare.
Il risultato è che la bolla di indignazione sui singoli peccatori diventa la comoda copertura della causa del peccato. Che rimane intatta e che continua a produrre i suoi frutti perversi senza soluzione di continuità.
Il peccato in questione è il sistema delle autonomie che è stato realizzato in Italia. Un sistema che non può non produrre reati, dissipazione, malcostume, criminalità organizzata. Perché privo di controlli e caratterizzato da una miriade di centri di spesa fatti apposta per usare il denaro pubblico come ammortizzatore: clientelare, sociale, politico che sia. Il caso Lazio è, in realtà, la spia di un “caso autonomie” che riguarda l’intero paese. Questo non significa che nei consigli e nelle giunte regionali e provinciali non ci siano persone virtuose. Significa solo che il sistema è stato costruito e funziona per trasformare i virtuosi in isolate eccezioni ed i dissipatori negli applicatori generalizzati della regola perversa.
La pratica della gogna, dunque, serve alle copie e all’audience ma distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dalla necessità di affrontare una volta per tutte il tema della riforma delle autonomie.
Una riforma che non riguarda solo la politica e i suoi sperperi ma riguarda anche e soprattutto i “poteri forti” (guarda caso quelli proprietari dei grandi media moralizzatori) che hanno prosperato grazie agli immani flussi di appalti, convenzioni e quant’altro che passano attraverso i centri di spesa incontrollati di regioni (a statuto speciale ed ordinario), province ed altri enti territoriali.
L’antipolitica, allora, non si combatte facendo volare qualche straccetto di quarta o quinta fila. O sacrificando qualche capro espiatorio di livello nazionale. Si fronteggia presentando in campagna elettorale un progetto di riforma serio e completo delle autonomie nel nostro paese.
Non si tratta di recitare la farsa delle abolizioni delle regioni dopo aver ridicolmente ed inutilmente ipotizzato la riduzione e l’accorpamento delle province. Né si tratta di riproporre un modello centralista ormai superato dalla storia.
Si tratta, però, di proporre un sistema di autonomie, o se vogliamo un sistema federale) che sia al tempo stesso responsabile, controllato e nazionale.
di Arturo Diaconale