martedì 4 settembre 2012
Negli ultimi giorni sono andati moltiplicandosi sui quotidiani le rievocazioni di due Padri massimi della Patria, Alcide de Gasperi e Palmiro Togliatti, con tanto di analisi del ruolo svolto e delle loro, più o meno esplicite, intese e convergenze. In Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi, apparso su Rinascita nel 1955-6, il leader comunista tracciava un primo bilancio dell’opera dello statista democristiano appena scomparso. Il giudizio di Togliatti offerto al suo “popolo” non poteva evidentemente essere lusinghiero.
Il De Gasperi capo di governo, infatti, veniva accusato di aver posticipato sine die le riforme di struttura al risanamento economico. La ricostruzione, perciò, aveva assunto per il segretario del Pci i caratteri della restaurazione operata dai tradizionali gruppi capitalistici. I registi della politica economica, d’altronde, continuava Togliatti, furono in realtà proprio quest’ultimi di conserva con gli americani; «alla testa dell’economia nazionale non soltanto ritornarono i vecchi gruppi dominanti, ma vi riportarono le stesse consuetudini contratte sotto il fascismo, esigendo dal governo misure e interventi che ponevano a loro disposizione sia la ricchezza del paese che il bilancio dello stato».
Le riforme della politica centrista (riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno), osservava Togliatti, furono conseguite solo attraverso diverse crisi della Dc e fortemente volute non da De Gasperi ma dalla sinistra democristiana. De Gasperi, al quale il leader comunista non era disposto a rilasciare la patente di «ricostruttore» e tanto meno quella di «rinnovatore», andava così ricordato piuttosto per aver restituito «il potere economico a una classe dirigente capitalistica chiusa, egoistica, che non ha prospettive davanti a sé». Ma il tentativo di recupero odierno di Togliatti non avviene certamente sul terreno della politica economica (anche se Laura Pennacchi ha recentemente parlato, criticandola, di una «inclinazione “liberal-einaudiana” del vecchio Pci»), bensì su quello più spiccatamente politico.
Togliatti, infatti, secondo lo studioso Michele Prospero, non meriterebbe la condanna all’oblio perché il partito da lui guidato ebbe tra gli altri il merito di costringere all’interno del perimetro democratico il suo elettorato e di vanificare così pulsioni massimaliste ed eversive. Analisi assolutamente condivisibile che però induce a due riflessioni. La prima riguarda Arturo Michelini, segretario del Msi lo stesso anno della morte di De Gasperi, nel 1954, e che tenne le redini di quel partito fino alla sua morte nel 1969. Nella sua lunghissima esperienza da leader del Movimento sociale, Michelini si sarebbe sempre opposto alle correnti più radicali, estremiste e antisistemiche del partito, che si rifiutavano di accettare le regole della democrazia “borghese”, e tentò un avvicinamento alle forze moderate e alla Democrazia cristiana. Ebbene, ci domandiamo allora se sia ragionevole non concedere a Michelini quel che si vuole invece e giustamente concedere a Togliatti, vale a dire di avere isolato le ali più estreme all’interno della propria area politica.
Di più. Ci domandiamo, e veniamo così alla seconda suggestione, se sia del tutto implausibile ipotizzare che lo studioso di domani inserisca anche Berlusconi nel Pantheon dei Padri della Nazione, in base alla constatazione che la sua discesa in politica nei primi anni Novanta prosciugò in gran parte i consensi elettorali della Lega, forza antinazionale per eccellenza, e l’intesa elettorale con quest’ultima ne depotenziò gravemente le minacce scissioniste.
di Luca Tedesco