La dieta che non può più attendere

martedì 28 agosto 2012


Secondo una recente indagine sui costi della politica pubblicata sul Corriere della Sera la Regione Lazio, guidata dall’ex sindacalista Renata Polverini, non brilla certamente per un uso oculato dei fondi a sua disposizione, soprattutto nella gestione del suo enorme apparato. 

Tra le tante spese pazze, infatti, si segnalano i ben 15 milioni di euro concessi ogni anno ai gruppi consiliari. Per non parlare dei circa cinquecento portaborse in servizio presso i vari politici regionali, a cui si aggiungono i collaboratori direttamente alle dipendenze dei vertici istituzionali. Ad esempio, il presidente del Consiglio regionale ha diritto ad uno staff di 19 persone, nove delle quali possono essere assunte al di fuori della medesima struttura burocratica (più un numero imprecisato di altri collaboratori per materie specifiche). Mentre i vicepresidenti, sempre in base al regolamento di questo impresentabile carrozzone, possono dotarsi “solo” di 12 galoppini, dei quali 4 esterni. Insomma, evitando di continuare l’impietosa descrizione di una Babele regionale che in quanto a sperperi, ahinoi, non caratterizza certamente solo il Lazio, bisognerebbe porsi la seguente domanda: come mai, nonostante la continua pressione esercitata dalla stampa nazionale e dal crescente aumento della cosiddetta anti-politica, sembra che nulla possa bloccare l’incontrollata espansione dei succitati costi della politica? Ora, dal mio punto di vista liberale, la risposta è molto semplice. La politica in Italia, a tutti i livelli, controlla e gestisce una quota sempre più alta di risorse, le quali attualmente rappresentano il 55% del Pil, ed è per questo inevitabile che, su una così ingente massa di quattrini, i sacerdoti della spesa pubblica ne usino una quota parte per i loro privilegi e per accontentare i tanti clientes della relativa area. Oramai si dovrebbe aver compreso che nel nostro disgraziatissimo Paese la democrazia elettiva è sempre più sinonimo di consenso costruito su un uso a dir poco disinvolto dei quattrini del contribuente, in cui i costi dei numerosi apparati istituzionali costituiscono solo l’aspetto più fulgido di un collettivismo del menga. 

Per tale motivo, ripetendo il concetto per l’ennesima volta, l’unica strada per portare una ventata di moralità nelle tante torri d’avorio della politica è quella che passa per un drastico ridimensionamento dei fattori che hanno generato una tale degenerazione democratica. Occorrerebbe, in sostanza, ridurre drasticamente la quantità di risorse gestite complessivamente dalla mano pubblica e, contestualmente, le competenze che la stessa pretende di esercitare come un macigno nei confronti della società spontanea. Ma giunti a questo punto, onde ottenere dalla politica e dalla burocrazia quei tanto auspicati passi indietro, ho l’impressione che non bastino più le chiacchiere e le promesse elettorali. Temo che, se non si avrà il coraggio di intervenire col bisturi in merito ad una spesa pubblica degna di un regime sovietico, si rischia prima o poi di rompere definitivamente il già precario rapporto tra cittadini pagatori e Stato ipertrofico, con tutte le inevitabile conseguenze del caso. Poi, con le casse irrimediabilmente vuote, voglio proprio vedere cosa racconteranno i vertici dei tanti carrozzoni politici, tra cui quello della Regione Lazio, alle loro voraci truppe di pubblici collaboratori.


di Claudio Romiti