Il vero spirito del liberalismo

domenica 26 agosto 2012


Mi sono sempre definito liberale per inclinazione dell’anima, e perciò resto diffidente di molti che attualmente si definiscono tali e mi propongono di scrivere con loro o sottoscrivere manifesti liberali. Nel secolo scorso Rudolf Steiner - nel suo Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo - ebbe un’intuizione chiaroveggente del senso del trinomio Libertà, Eguaglianza e Fratellanza che riassume gl’Immortali Principî del 1789. Egli chiarì la natura fisica della fratellanza, in quanto siamo tutti fratelli nella specie umana; spirituale dell’uguaglianza, perché siamo tutti eguali nello Spirito. In quanto alla libertà, chiarì ch’essa è un’inclinazione dell’anima poiché, per usare un detto italiano: «al cuor non si comanda». 

Il liberalismo non può essere un’ideologia se non altro perché se si scambiasse la libertà per un’idea dello spirito sarebbe un rigonfiamento dell’Ego, una ideologia dell’egoismo, del profitto privato, e nulla mi ripugna di più; è contro natura: l’essere umano è libero solo nello stato in quanto lo status rei publicæ è la sua condizione d’animale comunitario, come chiarì un Aristotele in ciò fedele platonico. Non vedo come un liberale possa definirsi tale prendendo sul serio i libelli politici di Karl Popper. Questi fu un grande, insuperato epistemologo, ma volendo fare, legittimamente, dei libelli antitotalitari si lasciò andare ad efficacissime battute che si farebbe a lui torto scambiare per nulla di più di barzellette.

Ad esempio, quando scrisse di Platone come dell’antenato del hitlerismo, denunciandolo come razzista in quanto scrisse che ognuno dovrebbe svolgere il lavoro cui lo inclinano i metalli presenti nel suo sangue. Karl Popper visse nella stessa Vienna del Carl Gustav Jung degli scritti sulla simbologia alchemica, e quindi sapeva benissimo che nell’antichità, come tra i filosofi ermetici, i metalli sono simboli delle inclinazioni dei soggetti, e Platone usò sempre simboli e miti. In altri termini, con quell’espressione significò che ognuno deve fare il lavoro e svolgere il ruolo che dettano le inclinazioni soggettive, altrimenti lo farà male e contro voglia: non c’è nulla di più liberale e quindi di buon senso. Invece sedicenti liberali vorrebbero che i giovani si formassero per forza non al lavoro pel quale sono inclini, ma a quelli pei quali: «vi è mercato»; il mercato come Moloch a cui sacrificare giovani e vecchi, dall’età scolare alla pensione; nulla di più illiberale, ed imbecille. La crisi attuale è il risultato della crisi etica che costoro rappresentano.

L’economia è solo una delle discipline della filosofia morale, che infatti è la materia che Adam Smith professò. Essa insegna come, per il bene della casa, ognuno debba regolarsi nel produrre, consumare e quindi distruggere, od accantonare risorse per attuali o futuri bisogni della famiglia. Quindi il profitto è morale od immorale a seconda che sia utile o danneggi le famiglie. La globalizzazione è un fenomeno positivo, in quanto fa circolare più liberamente le idee tra gli esseri umani al di là delle frontiere, territoriali e mentali, e favorisce la libera circolazione di tutti i fattori produttivi. Però tra essi, nell’età della moneta elettronica, ha favorito la libera circolazione innanzitutto del capitale finanziario, che viaggia sulla rete telematica in tempo reale e quindi non ha i costi di trasporto d’altri beni mobili, né le difficoltà ed i tempi di spostamento delle persone fisiche. Tanto ha reso il capitale finanziario apolide ed ha favorito i malfattori nelle speculazioni, cosicché essi lucrano liberamente sui fallimenti d’imprese ed anche di Stati, a mezzo del sistema bancario.

Le banche, cioè, che in un’economia sana sono al servizio dei produttori di beni e servizi reali per fornire loro, cavandone una giusta remunerazione, gli anticipi necessari alle loro produzioni, in realtà, con la scusa di volere la loro «libbra di carne» come nel Mercante di Venezia del vecchio William Shakespeare, sono diventate i veicoli d’una speculazione che vive sulla morte delle attività produttive. Quello che il mio amico Antonio Saccà ha definito di recente Capitalismo dei Vampiri. Il sistema è alimentato da un anacronismo monetario: il signoraggio. Quando le monete si coniavano in oro, argento od altre leghe, il Sovrano doveva fornire alla zecca quel metallo, perché potesse coniarle. Allorché, poi, la carta moneta fu: «pagabile a vista al portatore», gli stati hanno iniziato a fornire alla banca d’emissione, oggi con titoli del debito pubblico, l’equivalente del valore indicato sulle banconote emesse perché potesse provvedere ad acquistare le riserve necessarie per poter in teoria adempiere a quell’impegno di pagamento, cioè dare dei conî ad esempio in oro a chi si presentasse allo sportello per avere l’equivalente del valore dei biglietti.

Quei titoli di stato oggi generano gran parte del debito pubblico; però, il danaro non è più convertibile in nulla, rappresenta solo il potere d’acquisto che la gente è disposta, per il credito di cui gode quella moneta, a riconoscerle: come se il tipografo che stampa i biglietti per lo stadio pretendesse dalla società sportiva non il costo della stampa ed il suo ricarico ma il valore di vendita dei biglietti stampato sopra, incurante del fatto che i tifosi sono disposti a pagare quel prezzo non per i pregi artistici del manufatto tipografico, ma per quello che fa sperare loro la squadra del cuore, per il credito agonistico che s’è guadagnata negli anni. Altrettanto le monete valgono per il credito guadagnatosi dagli stati in cui esse hanno circolazione come mezzo di pagamento e non si vede per quale motivo quelli Stati dovrebbero dare all’Istituto d’emissione più di quanto è giusto per le mere spese di stampa.

Non si vede, di conseguenza, cosa ci sia di liberale non solo nel chiedere tributi, per pensare i quali è buono qualunque imbecille come scrisse Maffeo Pantaleoni, ma anche proporre di vendere i beni del patrimonio pubblico, magari agli usurocrati sopra descritti, invece di avere il coraggio sovrano d’impugnare la pratica del signoraggio con l’emissione di banconote di stato, e farsi portabandiera di questa scelta di sovranità nell’Unione europea per rifondare la moneta unica, al riparo dalle speculazioni internazionali; e naturalmente ridurre le spese dando nondimeno servizi efficienti, corrispondenti all’importo dei tributi, come scrisse sempre quel liberale vero di Maffeo Pantaleoni, il quale oltretutto chiarì che esistono solo due scuole d’economisti: quelli che l’economia la conoscono e quelli che non la sanno.

Chi scrive è, per sua disgrazia, avvocato, ma sia per parte di padre che di madre ebbe ed ha in famiglia molti medici, a partire dagli ultimi anni del XVIII secolo, ed ha sempre sentito dire in casa che, potendo, solo gli imbecilli scelgono di curarsi in cliniche private in quanto queste sono ottimi e costosi grandi alberghi, ma non avranno mai, per le cose serie, i macchinari di cui dispone un ospedale pubblico, perché gli stessi hanno costi tali che solo la collettività può concedersi. Del pari in famiglia vi sono sempre stati docenti, in genere universitari, e sono sempre stati sostenitori dell’idea napoleonica della scuola pubblica, in quanto nessun privato avrebbe interesse a mettere una scuole elementare in un paesino della Carnia o sul Gran Sasso, e solo la diffusione popolare dell’istruzione può portare ad un’ampia ed adeguata selezione dei meritevoli per la ricerca nelle università, nei conservatorî musicali o nelle accademie militari e d’arte.

Il maggiore sociologo liberale del secondo millenovecento e dei primi anni del secolo presente, Ralf Dahrendorf, sostenne sempre che la democrazia non è questione di egalitarismo, perché ogni società esprimerà sempre delle funzioni dirigenti, quanto di mobilità sociale, poiché la forza d’un popolo si vede nella possibilità riconosciuta a chiunque, anche a chi è nato ai margini della società, d’accedere, se capace e meritevole, a ruoli dirigenti. Egli scrisse che due sistemi sono fondamentali, quindi, per promuovere la democrazia: quello sanitario che deve garantire a tutti una quanto più sana e robusta costituzione possibile, e la pubblica istruzione, che deve dare a tutti la formazione adeguata a far valere le proprie capacità. Ora, una scuola pubblica, come insegnò Giovanni Gentile, non è detto sia statale, potendo contribuire alla pubblica istruzione anche istituti privati, ma uno stato che rinunci a fornire questi basilari servizi dove il privato non abbia capacità o convenienza a fornirli, che arretri su questi due fronti, cedendo tutto ai privati, è per natura illiberale e basta.

La cessione di funzioni pubbliche a privati s’è già vista in Europa, quando l’Impero dei Romani si ritirò dall’occidente ed i regni barbarici, nel vuoto di potere, cedettero le funzioni dello stato a privati in cambio di averne tributi, ausilio militare e consigli politici: il sistema si chiamò e si chiama feudalesimo, ed il liberalismo nacque dalle rivoluzioni antifeudali ed antiassolutiste, dalla revoca in dubbio dell’idea che lo stato fosse un venale patrimonio privato, quindi soggetto a transazione, e non una istituzione di garanzia pubblica dei diritti.


di Riccardo Scarpa