domenica 26 agosto 2012
Non abbiamo più alibi, ormai. Klout ha definitivamente smascherato la nostra vera natura di navigatori della rete: disperati narcisisti alla ricerca di quei quindici minuti di celebrità che Andy Warhol ci aveva promesso e nessuno aveva mai voluto darci fino all’avvento di Internet. A sentire i suoi creatori, Klout dovrebbe essere un misuratore di influenza sul web. Attraverso un misterioso algoritmo (così efficiente che, a quanto pare, constringe i suoi programmatori a cambiarlo una volta ogni due giorni), valuta in una scala da 0 a 100 quanto una persona sia considerata in rete. Dove 0 è Giovanni che grida nel deserto e 100 è il jingle del Pulcino Pio.
Non basta avere tanti amici su Facebook, migliaia di followers su Twitter, un sacco di spettatori sul canale YouTube per essere uno con la febbre alta su Klout: bisogna “influenzare”, per l’appunto. Ovvero dire, fare e scrivere cose che spinga gli altri a condividerle, a interagire. La verità, a giudicare dai cdommenti degli stessi utenti, è che Klout somiglia più a tutt’altro genere di misuratore, tipo quei righelli portati di nascosto in bagno negli anni delle elementari per cimentarsi in una particolarissima competizione sportiva che non si può dire in televisione. Per questo sta facendo impazzire tutti quanti nella rete, compresi quelli che fingono di non badare al proprio livello di notorietà ma, in fondo in fondo, si sentono un po’ dispiaciuti se il loro numerino magico perde qualche colpo. Insomma, ammettiamolo: siamo stati fregati in tutto il nostro irrefrenabile bisogno di attenzione proprio dal software che invece avrebbe dovuto compiacerci mostrandoci tutta l’attenzione di cui godiamo. E va beh, pazienza. Facciamocene una ragione.
Siamo esseri senzienti che vivono nel costante bisogno di essere amati, apprezzati, sostenuti, considerati. Non è un delitto, in fondo, se ogni tanto ci accontentiamo anche di un surrogato del sentimento, o se integriamo con quello gli affetti veri. Klout è soltanto il nostro modo di gridare al mondo: «Ehi, mamma, guarda: senza mani!» anche a trent’anni suonati, con una famiglia, il mutuo da pagare e la ventiquattrore sotto la scrivania. E allora grazie Klout, ché non ci neghi nemmeno da adulti l’ultimo giro sulla BMX.
di Luca Pautasso