Quel processo stalinista a Schwazer

mercoledì 15 agosto 2012


E va bene. Alex Schwazer ha sbagliato. Dopo aver vinto ad Atene la medaglia d’oro, ha voluto perpetuare in modo assurdo il proprio stato psicofisico nel corso del tempo, ha voluto insomma fermare il tempo, in tal modo commettendo un delitto simile a quello di Faust, il quale – ci narra Goethe – per fermare «l’attimo che è bello», vende l’anima al diavolo. Il nostro atleta invece che al diavolo, l’anima, ha pensato bene di venderla alla droga, assumendone per settimane una quantità tale che, secondo lui, lo avrebbe molto agevolato in  gara. Egli insomma ha bassamente barato e perciò si è sottratto al puro divertimento tipico dello sport;  non ha voluto più giocare nel momento stesso in cui ha deciso di assumere quelle sostanze, dimostrando purtroppo di non essere un vero giocatore: infatti, chi ama davvero il gioco non bara, perché il rischio di perdere è inseparabile dal piacere di vincere. 

Tuttavia, detto questo, e precisato che le sanzioni (sportive ed ordinarie) che lo colpiranno saranno pienamente giustificate, va aggiunto dell’altro. In particolare, chi abbia avuto modo di assistere giorni or sono alla conferenza stampa da lui tenuta davanti a decine di giornalisti e ripresa in televisione non credo abbia potuto sottrarsi ad un moto di fastidio e raccapriccio. Schwazer era sempre ripreso da una telecamera fissa in primo piano, le voci dei giornalisti che ponevano domande erano sempre provenienti da fuori campo, nessun altro veniva ripreso; le domande erano ovviamente le più varie, molte attinenti al mondo della sport e della droga, ma altre alla vita privata dell’atleta, ai suoi affetti, agli aspetti più intimi della sua vita; Schwazer, compunto e rassegnato, rispondeva a tutti, spesso piangendo, consegnandosi inerme a ciò che in effetti sembrava soltanto un barbarico  rito collettivo di espiazione. E questo per oltre due ore filate.

Avete presente le conferenze stampa predisposte dal Politburo sovietico quando un dissidente doveva pubblicamente confessare i propri crimini antisovietici, prima di partire per la Siberia ed essere inghiottito per decenni da uno dei tanti  campo di lavoro? Ecco – mutatis mutandis – e cioè dando per scontato che i dissidenti fossero innocenti e l’atleta colpevole, la sensazione è stata simile, e perciò raccapricciante. 

Mentre l’atleta singhiozzava autoaccusandosi davanti all’occhio senza vita della telecamera e chiedendo vanamente perdono, un alone di mistificazione umana e sociale aleggiava sospeso nell’aria. Infatti, costringere o soltanto indurre, promettendo indulgenza, chicchessia ad un rito espiatorio del genere equivale ad eccettuarsi dall’errore, a ritenersi  - noi sì - infallibili e perciò a farsi preda di quel sottile piacere (impareggiabilmente cantato da Lucrezio) di colui che, al sicuro sulla spiaggia, vede da lontano un vascello naufragare, felicitandosi del fatto che la mala sorte tocchi ad altri, mentre noi dalla riva osserviamo impassibili. Sarà bene allora ricordare che vicende del genere ci toccano tutti, perché nessuno di noi può dirsi esente dalla normale e quotidiana fallibilità umana: ciascuno di noi, sol che se ne fossero presentate le occasioni, avrebbe potuto fare come Schwarz, e forse peggio, perché nessuno è senza peccato. Se si fosse posto mente a questa verità, forse, la pena di quel rito espiatorio di sapore sovietico poteva essere risparmiata all’atleta ed anche a noi. Bene dunque ha fatto il Presidente del Coni, Gianni Petrucci, il quale, dando mostra di una superiore coscienza morale e di una ormai rara sensibilità umana,  ha dichiarato che fra qualche tempo, ad acque calmate, chiederà a Schwazer di assumere il ruolo di testimone del Coni nella lotta contro il doping sportivo. Così facendo, Petrucci ha raggiunto in un sol colpo tre risultati positivi: ha dato una ragione di vita ad un uomo moralmente e socialmente distrutto; ha propiziato una campagna di promozione antidoping quanto mai efficace, soprattutto per i giovani; ha rivoltato in bene ciò che prima appariva soltanto male.

Complimenti davvero! È Petrucci che così ha meritato la più bella medaglia d’oro di queste Olimpiadi.


di Vincenzo Vitale