Il disastroso laboratorio siciliano

giovedì 2 agosto 2012


Si dice da sempre che la Sicilia sia un laboratorio dove si sperimentano e si realizzano delle formule politiche che anticipano quelle che trovano una successiva applicazione a livello nazionale. Se così fosse la vicenda del governatore dimissionario Raffaele Lombardo lascerebbe pensare che la politica italiana sia destinata al fallimento definitivo.

La speranza, quindi, è che la diceria sulla vocazione siciliana ad anticipare la politica nazionale si riveli sbagliata . E che a Roma sia risparmiata la ripetizione della grottesca vicenda di un personaggio che era stato eletto alla presidenza regionale da una maggioranza di centro destra e che nel corso di una travagliata legislatura finita per fortuna in anticipo è riuscito a cambiare più volte lo schieramento di riferimento finendo con l’essere scaricato anche da quell’Udc e quella parte del Pd che lo avevano tenuto artificiosamente in vita a dispetto delle indicazioni del corpo elettorale. 

L’auspicio, allora, è che la politica nazionale non abbia nel proprio futuro un qualche fallimentare Raffaele Lombardo. Perché se così fosse vorrebbe dire che il paese sarebbe condannato alla frammentazione totale, ad una inguaribile governabilità ed al più drammatico caos. Ma la vicenda del governatore dimissionario non può suscitare solo la speranza e l’auspicio che non ci siano imitatori di sorta. Impone anche una riflessione sull’autonomismo siciliano. Non fosse altro perché Lombardo ha deciso di chiudere il suo discorso di dimissioni lanciando la proposta di una secessione della Sicilia dallo stato nazionale.

La riflessione è che di fronte alla provocazione di Lombardo le forze politiche responsabili siciliane e nazionali debbono avere il coraggio non solo di respingere con la massima energia l’urlo disperato di chi aveva avuto una grande occasione e l’ha completamente sprecata. Ma, soprattutto, di affermare che se si vuole evitare di ripetere a Roma il disastro di Palermo è indispensabile stabilire come alla radice dei mali, dei ritardi e delle enormi difficoltà della Sicilia in particolare e del meridione in generale ci sia l’idea secondo cui la grande autonomia dell’isola e quella più ridotta delle regioni del Sud debbano significare solo clientelismo, assistenzialismo e moltiplicazione di centri di spesa del tutto incontrollati dallo stato centrale.

Non si tratta di riesumare un centralismo ormai antistorico. Si tratta, però, di riconoscere che la lunga fase politica iniziata con l’istituzione delle Regioni a statuto speciale e perfezionata con la formazione delle regioni a statuto ordinario si è definitivamente conclusa con un bilancio completamente disastroso. Il sistema delle autonomie, soprattutto nelle regioni meridionali, avrebbe dovuto far crescere una classe politica consapevole del proprio compito storico di guidare il Sud nell’impresa storica di ridurre le distanze che secoli di storia sfortunata avevano provocato nei confronti del resto dell’Italia. Questo risultato, sia pure con qualche limitata eccezione, non è stato raggiunto. Il caso Lombardo lo dimostra fin troppo chiaramente. Ma l’incapacità della società meridionale di esprimere una classe politica all’altezza non è rimasta priva di conseguenze. La principale, quella più grave e tragica, è stata di lasciarsi progressivamente dominare dalla criminalità organizzata. Prima utilizzata come ammortizzatore sociale, successivamente trasformata in un vero e proprio contropotere dello stato nazionale e dei suoi rappresentanti meno disposti ai cedimenti.

La mafia, la camorra, la ‘ndrangheta non nascono di certo con l’autonomismo irresponsabile. Grazie ad esso, però, sono cresciute a dismisura nel corso del secondo dopoguerra diventando addirittura il tratto caratteristico del Sud italiano. Se si vuole cancellare questo marchio d’infamia, quindi, non c’è che una strada. Passare dall’autonomismo delle irresponsabilità e della criminalità al federalismo liberale, nazionale e responsabile.


di Arturo Diaconale