Il brand del compromesso storico

domenica 1 luglio 2012


Che valore dare al lavoro? L’Assemblea Costituente, quella che solitamente viene ricordata, con enfasi, quale quella dei padri costituenti, intendeva dargliene molto, come si evince dal dibattito, studiato e commentato da Antonio Passaro nel suo ultimo libro, Il valore del lavoro, appunto. 

Lucifero, Moro, Nitti, Croce, Di Nicola, Dossetti, Saragat, La Pira, Terracini, Fanfani, La Malfa, Silone rivivono nei verbali delle commissioni e dell’assemblea come delle cronache giornalistiche che seguivano l’evolversi della scrittura della Costituzione. Parecchi dibattiti, impensabili anche dal punto di vista della confusione odierna: Statuto o Costituzione, preambolo si, preambolo no, norme realistiche, norme programmatiche, norme futuristiche. Il lavoro, oggi scritto nel marmo della legge fondamentale come fondamento del vivere civile, appare in quel dibattito un vero e proprio qui pro quo. All’inizio le proposte sui primi articoli erano lunghe, pompose, teoriche ed insieme particolareggiate, quasi una summa di diverse dichiarazioni sull’uomo ed i suoi diritti susseguitesi in due secoli di rivoluzioni europee. 

C’era chi voleva relegarle in un inoffensivo preambolo, piuttosto che dedicarle lo spazio dell’incipit dell’articolato; e c’era chi voleva rifiutarle del tutto. 

Il dibattito però si infiamma con la proposta comunista di dichiarare il nuovo stato una Repubblica democratica di lavoratori. A più riprese in due sottocommissioni e poi in assemblea la dicitura viene proposta e riproposta, con tenace ostinazione dagli uomini Pci; posta e riproposta malgrado diversi voti contrari. La formula all’epoca appariva fortunatissima, essendo la stessa adottata nelle costituzioni dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, presente anche e non a caso nelle bozze di una costituzione francese. 

L’epoca, almeno tra giugno ‘46 e maggio ‘47, era ancora piena d’entusiasmo per una nuova classe dirigente giovane che se partiva da una situazione disastrosa, aveva almeno l’ottimismo della convinzione di poter migliorare. 

Chi era stato sempre in esilio o al confino, si accompagnava a chi era sempre rimasto in patria, da contrario, oppure favorevole o ancora neutrale all’ancient regime. 

Tutti i partiti del Comitato di liberazione nazionale erano al governo, i socialisti avevano più voti dei comunisti e la guerra fredda non aveva ancora il volto più agghiacciante.

Malgrado le tante giravolte politiche degli anni precedenti, l’ottimismo impegnava a credere nella buona fede e della democraticità di tutti. Bube e la sua ragazza godevano ancora di stima generale e le colpe erano tutte di una parte sola. Il paese, soprattutto agricolo, vedeva una popolazione povera e disoccupata, i cui ceti ricchi erano immediatamente identificati nei pescecani, gli speculatori che in ogni guerra si arricchiscono. 

L’espressione - Repubblica democratica di lavoratori- come venne fatto notare, sembrava un richiamo limitato al solo lavoro dipendente e manuale eppure trovò il sostegno entusiasta di un largo schieramento. Assimilabile ai pleonasmi democrazia popolare del popolo, famosi nell’Est comunista, la Repubblica democratica di lavoratori era un po’ il Consiglio di operai e contadini sovietico, famoso per non aver mai contato nulla nell’Urss, pur dandogli addirittura il nome. 

Togliatti ed i suoi, consci della cosa per una vita vissuta al buio del mezzogiorno moscovita, non erano molto interessati al termine “dei lavoratori” in sé, quanto all’imporre il trademark di un modello che stava travolgendo l’intera Europa, estendendosi di là a poco dalla Germania ai Balcani. Socialisti e progressisti, che pure avevano vissuto amare esperienze in Germania, Spagna e durante il triennio dell’alleanza nazicomunista, aderirono con entusiasmo al Pci tanto che la dicitura non passò che per un pugno di voti.

I contrari all’epoca non contrapponevano al lavoratore, il capitalista o l’imprenditore, o il rentier, o il professionista, quanto preti e missionari. Per i Democristiani il timore era che si escludesse il missionario dalla categoria del lavoratore, prefigurando un’epoca di repressione religiosa, quale era norma nei paesi comunisti. Come si vede, l’assoluta maggioranza dei costituenti dava poco peso al ruolo imprenditoriale o bancario, malgrado che il capo del Cnl Alta Italia fosse stato un banchiere e che il paese fosse sempre sotto occupazione Usa. 

Un democristiano ebbe a sostenere che il cittadino era lavoratore e viceversa, escludendo dall’anagrafe chi non rientrasse nella condizione data. Altri parlarono addirittura di Albo obbligatorio del lavoro. Così, una volta rifiutata la dicitura Pcista, Fanfani, Dossetti e La Pira cercarono di trovare un compromesso, che venne individuato nella parola, fondamento corretta poi in fondato. La Repubblica non poteva essere solo dei lavoratori; ma poteva essere fondata sul lavoro, in antitesi alla razza o al sangue. Il lavoro, fondamento della Repubblica, era quello nobilitante effettuato hic et nunc, ma era anche quello differito, avvenuto in passato, il cui reddito si era poi evoluto in risparmio ed infine eredità. Il lavoro, fondamento, era anche proprietà e lasciti religiosi. 

Fatti alcuni distinguo, messi alcuni puntini sulle i, chiarite le libertà religiose, assunto che anche i monaci erano lavoratori a modo loro, l’idea dei Dc di società non era poi così diversa da quella dei Terracini e degli Ingrao; ed assomigliava molto alle esperienze pregresse corporative. 

Intanto il repubblicano La Malfa ed il solito socialista dispettoso Silone avevano preparato la loro variante che voleva la Repubblica, una democrazia fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro. L’area progressista moderata era convinta che questa formula avrebbe potuto contare sull’intero arco delle sinistre. 

L’identica opinione nutrita sui Patti Lateranensi da questi costituenti che già ne pregustavano la cancellazione. 

Quei “diritti di libertà” messi sullo stesso piano della giustizia sociale non piacquero a Togliatti che li trovò, fuorvianti, poco comprensibili e non popolari. Socialisti e comunisti a sorpresa sostennero i cattolici, isolando le minoranze laiche. Come sarebbe avvenuto anche per i trattati Stato Chiesa (senza i socialisti però). Dunque. Non il lavoro, il reddito, il welfare si voleva in costituzione quanto la massa dei lavoratori, larvata minaccia a chi si fosse opposto allo Stato ad una classe sola. Oppure si voleva garantire i missionari da una nuova ondata di leggi Siccardi, espropriatrici di beni ecclesiastici.

Nemmeno i diritti del lavoro sembravano interessare molto (come nemmeno quelli di libertà). Non è chiaro se quando si mise il lavoro, inteso in modo vago, a fondamento della Repubblica, si intendesse farne radice o metterlo sotto i piedi. I passaggi costituzionali, illuminati step by step da Passaro sembrano svelare l’illusione coltivata e raccontare un qui pro quo, che ben spiega come mai il lavoro italiano sia poco formato, male retribuito, tanto tassato e maxime burocratizzato. Forse i padri costituenti non erano poi così grandi. 


di Giuseppe Mele