venerdì 29 giugno 2012
Nell’intervista al Wall Street Journal che ha innescato l’ennesima polemica il ministro Fornero parlava di “job”, non di “work”. Il posto di lavoro (in inglese “job”, appunto) non è un diritto, ma qualcosa che si conquista. Queste le sue parole, diventate semplicemente «il lavoro (“work”) non è un diritto» nell’ingenua sintesi del giornalista del quotidiano Usa. Tutto chiarito, dunque? Nient’affatto. Noi italiani ci appassioniamo spesso alle sottigliezze lessicali, andiamo a caccia dell’incidente linguistico a cui inchiodare il nostro avversario politico, ma che si riferisse a “job” o a “work”, il concetto espresso dal ministro si scontra con l’ideologia, e la realtà, dominante nel nostro paese che vede nel lavoro, anche nel posto di lavoro, un diritto. Prevalente, per esempio, rispetto ai diritti di proprietà. Chi ne è convinto non farà distinzioni e dal suo punto di vista la polemica è tutt’altro che pretestuosa: d’altronde, in quale altra forma il lavoro (“work”), che dovrebbe essere tutelato come un diritto, si manifesta concretamente se non nel posto di lavoro (“job”)? Ovvio che la distinzione lavoro-posto di lavoro possa apparire un sofisma.
La distinzione assolve il ministro dall’accusa di aver contraddetto la Costituzione, almeno nella sua lettera. Non si può certo pensare che il diritto al lavoro riconosciuto dalla Costituzione vada inteso nel senso che lo Stato, o le imprese, debbano garantire un posto di lavoro a tutti. Su questo si è espressa in diverse sentenze (nel 1965 e nel 2006) la Corte costituzionale, chiarendo che «i principi generali di tutela della persona e del lavoro... non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento di un determinato posto di lavoro».
E’ però indubbio che il senso attribuito nei decenni al diritto al lavoro dal legislatore e dalla giurisprudenza è stato proprio quello di un diritto al posto di lavoro. La norma che prevede l’intervento del giudice per reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore ingiustamente licenziato, o la particolare forma di sussidio ideata, la cassa integrazione, che cristallizza il posto di lavoro in attesa che il lavoratore possa rientrarvi, ne sono le prove inoppugnabili. Insomma, nella legislazione ordinaria, e nell’interpretazione delle norme da parte dei giudici del lavoro, si è avvalorata l’esistenza di un diritto costituzionale al posto di lavoro.
Se ciò è avvenuto, non devono essere così inequivocabili gli articoli della Costituzione in cui si parla di lavoro. In effetti, già l’articolo 1 attribuisce al lavoro una centralità nella nostra Repubblica non riconosciuta nemmeno alla libertà individuale («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»). Può apparire ovvio che il «diritto al lavoro» di cui si parla nel primo comma dell’art. 4 s’intenda concretamente come un impegno ad adottare politiche idonee a fornire ai cittadini gli strumenti (ad es. istruzione e formazione) per trovare un posto di lavoro e a creare un contesto economico favorevole alla piena occupazione. Ma alle «condizioni che rendano effettivo questo diritto» fa riferimento la seconda proposizione del comma, mentre la prima sancisce ambiguamente un vero e proprio «diritto al lavoro». E per l’art. 35 «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».
In ogni caso, non potrebbe mai esserci condivisione su quali debbano essere le politiche «che rendano effettivo questo diritto», o che massimizzino l’occupazione. Per alcuni, totale flessibilità in entrata e in uscita, liberalizzazione dei mercati di beni e servizi, sgravio degli oneri fiscali e contributivi a carico dell’impresa, sussidi di disoccupazione non troppo generosi e non assistenziali. Per altri, esattamente il contrario: illicenziabilità, intervento pubblico, elevata contribuzione, reddito minimo garantito. Ad oggi prevalgono queste seconde politiche, e dunque il diritto effettivamente tutelato è al “posto di lavoro”. Insomma, un problema costituzionale esiste eccome.
Altro che «rivoluzione culturale», come qualcuno l’ha inappropriatamente definita, il ministro Fornero come spesso le capita si è lasciata impressionare dalle reazioni e non ha voluto ingaggiare una battaglia culturale sul tema, che non può certo esaurirsi come un banale equivoco lessicale. Qualsiasi significato si attribuisca al diritto costituzionale al lavoro, la sua attuazione concreta oggi si scontra con quei principi basilari che fanno funzionare l’economia e favoriscono, quindi, l’occupazione. Anche se il ministro predica bene sul WSJ, la sua riforma non cambia il paradigma italiano.
di Federico Punzi