venerdì 15 giugno 2012
Il vertice non previsto di martedì sera tra Monti e i leader dei tre maggiori partiti che lo sostengono dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la estrema gravità della situazione del Paese. Al di là delle spiegazioni di facciata, si avverte nell'aria una situazione analoga a quella che portò Berlusconi a rassegnare le dimissioni. L'impressione sempre più marcata è quella di un sistema il quale si sta avvitando in una spirale senza via d'uscita, dominata dal micidiale combinato disposto di una fiscalità in crescita, una economia in profonda recessione e, conseguentemente, una progressiva sfiducia dei mercati finanziari circa la tenuta dei conti pubblici.
D'altro canto, non tagliando come si dovrebbe la spesa pubblica, a parte la riforma a regime delle pensioni, si è oramai innescata una folle rincorsa nel tamponare a forza di ulteriori aggravi fiscali le falle di un bilancio pubblico, dal centro alla periferia, che somiglia sempre più ad un colabrodo. Sotto questo aspetto, da molti decenni il nostro Paese è stato amministrato in modo finanziariamente canagliesco utilizzando una sorta di gigantesco gioco del cerino. In sostanza, chiunque si trovasse nella stanza dei bottoni, onde nascondere gli effetti di un meccanismo pubblico perennemente orientato verso il cosiddetto deficit-spendig, ha agito essenzialmente su due livelli: l'indebitamento crescente ed il costante aumento dei tributi. A questi si deve aggiungere, prima del nostro ingresso nella moneta unica europea, l'uso piuttosto disinvolto della vecchia liretta, utilizzata anch'essa per occultare, a colpi di svalutazione e di inflazione, i guasti di una spesa pubblica fuori controllo.
Fatto sta che, da quando gli investitori internazionali hanno cominciato in modo massiccio a vendere sul mercato secondario i titoli di stato italiani, avendo fiutato odore di insolvenza, molta parte della liquidità che serviva a far funzionare il nostro scalcinato sistema sta andando a coprire questa colossale falla. In sostanza, venendo meno buona parte del finanziamento estero del debito, l'Italia è costretta a trovare al proprio interno gran parte delle risorse necessarie per alimentare quest'ultimo ed una spesa pubblica di circa 850 miliardi di euro. Tant'è, che nonostante il mega prestito ricevuto dalle banche italiane dalla Bce, servito in buona parte per frenare l'inarrestabile risalita del famigerato spread, il sistema italiano nel suo complesso appare sempre più affamato di risorse monetarie, sintomo evidente di un tipo di avvitamento che, stando così le cose, non può che condurci nel baratro del default.
Ora, sebbene non sia corretto attribuire al governo Monti la responsabilità storica di un andazzo che, senza soluzione di continuità, caratterizza la politica italiana da molti anni, la grave responsabilità dei professoroni al potere è quella di non aver fatto nulla per invertire una simile tendenza. Anzi, costoro hanno addirittura inasprito il meccanismo, utilizzando in modo assolutamente indiscriminato la leva fiscale proprio che colmare le falle causate nel fabbisogno pubblico dal rallentamento dell'economia e dalla fuga degli investitori esteri dal nostro debito. Da questo punto di vista, ritenere che bastasse l'aplomb e la compassatezza accademica di un bocconiano per ridare fiducia ad un Paese affetto da un eccesso di spesa e di tasse, senza toccare i veri nodi del problema, si sta dimostrando una folle illusione.
La fama e la credibilità non è più sufficiente per aggiustare la nostra traballante baracca. Occorre operare quei necessari sacrifici sul fronte delle uscite pubbliche onde evitare la inevitabile bancarotta. E per far questo basterebbe anche un ragioniere, purchè dotato di quel coraggio politico che in questo momento sembra far difetto ai cervelloni al potere.
di Claudio Romiti