venerdì 27 aprile 2012
Meno male che la sigla "I Moderati" non sia più disponibile perché già depositata. Per di più da un deputato indipendente del Partito democratico, Giacomo Portas. Per fortuna. Così non si corre il rischio che Silvio Berlusconi possa raccogliere il suggerimento di Gaetano Quagliariello e chiamare "I Moderati" il nuovo partito che dovrebbe sostituire quello del Popolo della Libertà.
I moderati, infatti, non sono una categoria della politica. Possono essere una caratteristica del carattere, quella che si contrappone alla tendenza all'eccesso ed all'esasperazione. E proprio per questo non possono essere considerati come rappresentativi di quella gigantesca e maggioritaria parte del corpo elettorale italiano che dal momento dell'introduzione del suffragio universale sceglie una collocazione contrapposta a quella della sinistra d'ispirazione prima marxista e post-marxista. I moderati, se proprio si vuole dare al termine una collocazione politica, possono essere al massimo identificati come una ristretta componente di questa grande area. Sono gli eredi delle correnti centriste della Democrazia cristiana, quelli che nell'esempio dei diversi interpreti del doroteismo pongono al centro della loro azione politica il principio del "queta non movere et mota quetare". Cioè il principio non della conservazione ma dell'inazione. Che, in termini più comprensibili, significa non fare nulla per meglio conservare le posizioni di potere ereditate dal passato.
Nessuno contesta loro il diritto all'esistenza. Anche Pisanu e Casini, tanto per fare un esempio concreto, hanno diritto di esistere all'interno della grande area della maggioranza reale del paese. Ma rappresentano una componente minoritaria, che andrebbe meglio etichettata come post-dorotea. E che non solo per questo motivo, ma perché esprime la ricetta del non fare" che è il contrario delle necessità indispensabili all'Italia, non possono in alcun modo rappresentare ed etichettare l'intero schieramento che dovrebbe nascere dalle ceneri del Pdl.
Come chiamare, allora, un'area dove figurano democratici, liberali, riformisti ed in cui non possono non trovare spazio tutti i neo-nazionalisti che verranno risvegliati ed alimentati dalla crisi dell'Europa germanizzata? La risposta spetta ormai agli esperti di marketing politico. Ma il problema del nome è un falso problema.
Perché, in questo caso, più importante dell'etichetta è la forma del prodotto da mettere sul mercato. Quella del partito unico sull'esempio di quanto realizzato nell'ultimo ventennio dalla leadership di Silvio Berlusconi? O quella della confederazione delle tante e diverse componenti che fanno parte di un'area che, come tratto distintivo, non può avere quello della conservazione e del "non fare" ma deve obbligatoriamente avere quello del superamento dello stato burocratico-assistenziale e della realizzazione di una democrazia liberale più avanzata e matura? Fino a quando il Cavaliere è stato in campo il problema non si è posto. Oggi che ha fatto un passo indietro (o di lato) la questione diventa determinante. Il migliore modello da seguire sarebbe quello del Partito repubblicano (o democratico) americano: un ampio contenitore dove la selezione tra le diverse componenti la fanno le primarie codificate. Ma se questo modello dovesse apparire ancora troppo avanzato, allora tanto vale puntare sul modello confederale. Senza perdere altro tempo. Perché le elezioni si avvicinano.
di Arturo Diaconale