La crescita italiana e l'egoismo tedesco

martedì 17 aprile 2012


Ma come si finanzia la crescita ora che la moneta unica impedisce il gioco delle svalutazioni progressive con cui il nostro paese ha campato per alcune decenni? E, soprattutto, ora che non è più possibile seguire l'esempio degli ultimi trent'anni e scaricare su un debito pubblico giunto a livelli di fallimento i costi indispensabili per le iniziative in grado di riattivare produzione, occupazione e consumi?

La risposta scontata dei partiti di sinistra dice che l'unica strada è quella della leva fiscale affiancata da una seria lotta all'evasione. Quella altrettanto scontata dei partiti del fronte opposto sostiene che non c'è altra possibilità oltre la vendita del patrimonio pubblico ed i tagli delle spese inutili. Purtroppo, però, si tratta di risposte valide in linea di principio ma in gran parte inutili ed inapplicabili sul piano pratico. 

Combattere l'evasione è sicuramente un atto sacrosanto. Ma, in un paese dove la pressione fiscale reale sfiora il 60% del reddito individuale, pensare di insistere sulla leva fiscale affiancata da qualche esibizione muscolare di energia antievasione non solo è ridicolo ma anche molto pericoloso. Non solo e non tanto perché si rischia la rivolta anti-fisco (gli italiani sono un popolo pacifico). Ma soprattutto perché una linea di così intransigente forsennatezza non può fare altro che moltiplicare gli effetti recessivi, alimentare la fuga dei capitali all'estero e trasformare il fenomeno dell'evasione, che riguarda alcuni settori privilegiati della società italiana, in un fenomeno di legittima difesa di massa.

Pensare di finanziare la crescita con le tasse è dunque demenziale. Meno folle è immaginare che la ripresa possa passare dall'abbattimento del debito pubblico da realizzare attraverso la vendita del patrimonio dello stato e una drastica sforbiciata delle parti improduttive e super-costose dello stato burocratico-assistenziale. In teoria, infatti, le due ricette sarebbero addirittura obbligate. Ma quanto avvenuto nella seconda metà degli anni '90, con le privatizzazioni che hanno arricchito i " soliti noti" della finanza nazionale e depauperato lo stato senza assicurare alcun vantaggio alle casse pubbliche, indica che la strada delle privatizzazioni non è utilizzabile presto e bene. Va studiata e preparata evitando accuratamente di ripetere errori che oggi non sarebbero più perdonati da una opinione pubblica ormai smaliziata. E lo stesso vale per i tagli della spesa pubblica. Che per essere efficaci dovrebbero riguardare le elefantiache strutture burocratiche del paese, cioè lo sterminato esercito dei dipendenti pubblici. Ma che fare delle masse in esubero? Abbandonarle a sé stesse come i centocinquantamila esodati della riforma delle pensioni e creare le condizioni per una vera ed incontenibile rivolta dei disperati? A meno che non si voglia prendere per i fondelli l'opinione pubblica come si voleva fare con l'abolizione delle province (che venivano eliminate ma i cui dipendenti passavano alle regioni con risparmi irrisori), anche la strada della riduzione del mostro burocratico prevede tempi lunghi e misure attente. Di sicuro il lavoro di una intera generazione. Ed allora? Come come risponderà il vertice di oggi tra Mario Monti ed i segretari della maggioranza alla domanda su come si può finanziare la crescita?

La risposta non può essere solo quella del rigore e dell'austerità all'interno. Ma anche quella della pressione sull'Europa , ed in particolare sulla Germania, per allentare la stretta di una moneta unica  che per evitare i rischi dell'inflazione tanto temuti a Berlino sta uccidendo tutte le economie diverse da quella tedesca. Solo avendo il coraggio di chiedere alla Germania di non preoccuparsi egoisticamente del proprio interesse nazionale si potrà pensare alla crescita italiana!


di Arturo Diaconale