Bossi cade, ma i suoi elettori sono in piedi

domenica 8 aprile 2012


Godono. In maniera diversa, ma godono un po' tutti. Il tramonto triste di Umberto Bossi ha risvegliato il peggio nell'animo di quelli che abitano il Palazzo. 

Gode la sinistra del Nord. Quella che avrebbe voluto intercettare lo scoramento dei lavoratori alle prese con la crisi, ma per vent'anni si è vista scavalcare in credibilità e forza trascinatrice da un vero popolano in canottiera. Anche nelle fabbriche, tra le tute blu.

Gode il popolo viola. Quello che negli ultimi anni avrebbe voluto interpretare l'animo dell'antipolitica, ma per ogni battaglia che metteva in campo si accorgeva che era arrivato sempre prima il Senatùr.

Gode l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quella che anche stando all'opposizione non è mai riuscita a strappare alla Lega di Bossi il consenso dei giustizialisti qualunquisti. Neppure quelli delusi dalla deriva governativa e inciucista, perché nel Carroccio c'era sempre una speranza di rivoluzione in più.

Godono gli ex leghisti epurati in malo modo da un partito a gestione personale e totalitaria. Quelli che, come Irene Pivetti o alcuni amministratori locali meno noti (il sindaco di Macherio, ad esempio) fanno oggi quasi a gara per dispensare una "parolina buona" nei confronti dell'ex padre-padrone da ogni salotto televisivo che voglia concedere un po' di spazio per ricordare che: «Noi l'avevamo detto». 

Godono gli azzurri del Pdl. Quelli che hanno sempre maldigerito le accuse leghiste di esser loro i corrotti della coalizione e che sono sempre stati invidiosi del rapporto privilegiato tra Bossi e il Cavaliere.

Godono gli ex An del Pdl. Quelli che non possono tollerare che si sputi sulla patria e sulla bandiera. E quelli che vivono a Sud del Po e hanno l'orticaria per le esternazioni razziste e antiromane.

Godono alcuni maestri del giornalismo perbene. Come Ezio Mauro e il partito di Repubblica. Che proprio non riesce a non esultare per la caduta di Bossi, soprattutto se può accostarla alla fine dell'era Berlusconiana: «Cadono ad uno ad uno -scriveva nell'editoriale di venerdì - gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l'immagine di un'Italia da comandare, più che da governare». Sottinteso: questa storia è finita, kaputt, ora tocca alla sinistra illuminata. 

Destra e sinistra, politici e opinionisti: godono in troppi. Se li vedi nei talk show televisivi fingono compostezza. Ma solo perché pare brutto e inelegante infierire su un anziano malato. Anni di addestramento al diktat del politicamente corretto non passano invano. Prima o poi, però, un sorrisino scappa e quando anche riescono a controllarsi bene non possono nascondere una luce di soddisfazione negli occhi.  Un luccichio che vuol dire:«Era ora, te la sei cercata, finalmente te ne puoi andare fuori dalle balle. Il sistema ha espulso l'anomalia. Viva "le magnifiche sorti e progressive». E invece, tutti, hanno poco da godere. Poco la sinistra e poco la destra. Perché se il Senatùr tramonta, non scompaiono né i suoi elettori, né il malessere che ha saputo interpretare per tanti anni. Anzi, più la crisi morde l'Italia e mette in ginocchio il nord produttivo, e più chi ora ghigna, pensando di avere un vuoto politico da riempire, dovrebbe preoccuparsi. 

La Lega e il geniale fiuto politico di Bossi hanno avuto un merito che nessuno può mettere in discussione: quello di interpretare e imporre ai giochetti di palazzo romani il tema del ceto produttivo e la questione settentrionale. Se Bossi va in pensione, non per questo scompare quel mondo che, per anni, si è rifugiato nella Lega come scommessa per un'Italia meno opprimente. Se Bossi va in pensione, non per questo viene meno la frattura tra il Nord e il Palazzo, tra produttori e consumatori di tasse.

Bossi va in pensione. Ma chi vuol vincere le prossime elezioni è costretto a fare i conti con quegli italiani, esasperati dalla crisi, che oggi più di prima credono  nella rivolta fiscale e nella lotta di liberazione dalla burocrazia e dallo statalismo.


di Cristina Missiroli