Non serve morire per Kabul

martedì 27 marzo 2012


Si è creata una tradizione, una prassi consolidata, un rituale definito. In Afghanistan cade un soldato del nostro contingente. Nella base si celebra una prima cerimonia funebre con i commilitoni del soldato ucciso. Segue il trasporto della bara in Italia, l'arrivo nell'aeroporto di Ciampino con i famigliari in lacrime ed i rappresentanti del governo e delle Forze Armate, la veglia funebre al Celio, i minuti di silenzio negli stadi, i funerali ufficiali e quelli privati che si tengono nel paese d'origine dello scomparso. La dolorosa liturgia è ormai stabilita in tutti i dettagli. Ciò che diventa sempre più oscuro ed incomprensibile è il perché i soldati italiani debbano continuare a morire in Afghanistan. Ufficialmente si dice che muoiano per la pace. Non a caso il contingente militare di cui fanno parte viene definito "di pace". Ed anche se in anni ed anni di attività bellica (la controguerriglia nei confronti dei talebani non si realizza a colpi di benedizioni con fronde d'ulivo pasquale) la pace non è mai stata conseguita, l'obbiettivo ufficiale rimane sempre lo stesso. Nella realtà e fuori dall'ipocrisia, però, tutti sanno che per quanto riguarda l'Italia la ragione per cui espone i suoi soldati al rischio di essere uccisi non riguarda affatto una pace che nelle montagne afghane appare assolutamente impossibile da imporre. Il motivo è il rispetto degli impegni assunti con gli alleati internazionali. Una lealtà che a sua volta produce (o dovrebbe produrre) non solo prestigio ed adeguata collocazione internazionale per il nostro paese ma anche una serie di ricadute pratiche e concrete di ordine economico. Fino ad ora questo rispetto degli impegni e questa lealtà nei confronti degli alleati non hanno avuto cedimenti o ripensamenti di sorta. Al contrario, sia i governi di centro destra che quelli di centro sinistra, sia pure con toni e sfumature diverse, hanno fatto a gara nel ribadire il pieno ed assoluto rispetto degli impegni internazionali del paese. Un rispetto che non è venuto meno e non è stato minimamente messo in discussione neppure quando altri alleati hanno imposto al nostro paese di adeguarsi passivamente alle loro scelte autonome (la guerra contro la Libia) o nel momento in cui l'incalzare di una crisi economica che ha messo e continua a mettere a rischio la stabilità e la tenuta della società italiana avrebbe giustificato più di un ripensamento. Ma il Presidente Obama incomincia a valutare l'eventualità di una accelerazione nella strategia d'uscita da Kabul. E si ipotizza che la possibile vittoria elettorale di Hollande in Francia potrebbe portare ad un rapido disimpegno francese destinato a provocare successivamente quello di altri paesi europei. Tutti gli alleati, in altri termini, si apprestano a ridefinire la loro presenza in Afghanistan sulla base del proprio interesse nazionale. Il che pone un problema di grande importanza per il governo tecnico del nostro paese. Quello di decidere se il rispetto degli impegni internazionali debba essere considerato come subordinazione agli interessi nazionali altrui o se anche l'Italia debba incominciare a seguire l'esempio degli alleati ed a riflettere sulla necessità di adeguare il proprio comportamento internazionale alla tutela dei propri interessi nazionali. Questi interessi, nel momento in cui la società italiana è chiamata a compiere pesanti sacrifici per salvare se stessa ma anche una serie di fondamentali equilibri economici internazionali, consigliano di interrompere al più presto la liturgia del dolore per i caduti in Afghanistan. Non solo per evitare spese inutili ma, soprattutto, per non essere costretti a continuare a mentire a noi stessi ed alle famiglie dei componenti del contingente di pace rifiutandoci di ammettere che non serve a nulla morire per Kabul!


di Arturo Diaconale