lunedì 22 dicembre 2025
La Consulta legittima la trasformazione della proprietà da libertà a concessione amministrata
La proprietà non viene più difesa: viene gestita. Non viene più tutelata: viene conformata. La sentenza n. 186 del 2025 della Corte costituzionale, sul Testo unico del turismo della Regione Toscana, certifica questo passaggio con chiarezza inquietante. L’immobile non è più un bene di cui disporre, ma una funzione da autorizzare. L’uso non è più una scelta, ma una compatibilità amministrativa.
Formalmente la Corte respinge tutte le censure sollevate dal Governo. Sostanzialmente, consacra un modello in cui l’uso dei beni immobili, la libertà contrattuale e l’organizzazione dell’attività economica vengono assorbiti in una pianificazione diffusa, affidata a Regioni e comuni, giustificata da categorie elastiche come utilità sociale, governo del territorio, corretta fruizione turistica. È un lessico che non nega la libertà, ma la dissolve nel linguaggio della funzione.
Qui si coglie la distanza rispetto alla tradizione più antica del pensiero occidentale. Per David Hume, la proprietà non nasce da un disegno politico né da un atto di sovranità, ma da convenzioni sociali spontanee, sviluppatesi per ridurre il conflitto e consentire la cooperazione. La legge non crea la proprietà: la riconosce, la stabilizza, la protegge. Nella sentenza della Consulta, al contrario, la proprietà non precede l’intervento pubblico, ne diventa invece oggetto permanente. Non è più un dato da rispettare, è piuttosto una variabile da conformare.
Il passaggio è esplicito quando i Giudici delle leggi affermano che la funzione regolatoria dei comuni: “Non richiede specifici criteri-guida nella legge, essendo caratterizzata da elevata discrezionalità”. L’assenza di criteri non è un vulnus, ma una condizione fisiologica del governo del territorio. La discrezionalità amministrativa non è più il rischio da contenere, bensì lo spazio entro cui il potere può muoversi liberamente. Il diritto smette di essere un limite e diventa un materiale plasmabile.
La libertà d’impresa segue la stessa traiettoria. L’ampliamento della capacità ricettiva degli alberghi può essere compresso in nome delle “esigenze del territorio”, ricondotte all’utilità sociale dell’articolo 41 della Costituzione. Ma l’utilità sociale non è definita una volta per tutte: è ciò che l’amministrazione, di volta in volta, ritiene tale. L’iniziativa economica non è più una presunzione di legittimità, ma un’attività che sopravvive solo se compatibile con un disegno pubblico mutevole.
Il cuore della sentenza riguarda però la casa. O, più precisamente, ciò che resta della casa quando viene assorbita nel circuito turistico. Se un immobile è utilizzato “in modo stabile ed organizzato come struttura ricettiva”, il mutamento di destinazione d’uso è ritenuto coerente e non irragionevole. Non è più la natura del bene a determinarne il regime giuridico, quanto la valutazione pubblica del suo utilizzo. La casa cessa di essere casa in quanto tale e diventa funzione. Il proprietario non sceglie più come impiegare il proprio bene: deve adeguarsi alla qualificazione amministrativa del suo comportamento.
Questo processo si completa con l’obbligo di gestione in forma imprenditoriale. Iscrizione al registro delle imprese, apertura della partita Iva, tassazione come reddito d’impresa: la Corte riconosce senza attenuazioni l’impatto di tali obblighi, e tuttavia li considera una conformazione legittima del diritto di proprietà. In tal senso, è il passaggio decisivo, quando si afferma che il legislatore regionale: “Ben può conformare anche le facoltà spettanti ai privati. Compreso il contenuto del diritto di proprietà”. Non si tratta più di porre limiti esterni a un diritto riconosciuto, ma di ridefinirne dall’interno il contenuto.
Qui la sentenza smette di essere solo una decisione giuridica e rivela la sua natura politica. Come ha scritto Murray N. Rothbard: “Lo Stato è l’organizzazione dei mezzi politici”. È esattamente ciò che accade quando l’uso dei beni, la forma dell’attività economica e perfino la durata delle locazioni vengono ricondotti a un sistema di autorizzazioni, contingentamenti e criteri qualitativi fissati dall’alto. Non si coordina più: si dirige.
Il capitolo sulle locazioni brevi porta questa logica alle estreme conseguenze. Autorizzazioni quinquennali, limiti numerici, programmazione territoriale: un regime concessorio pieno. Eppure, per la Corte, tutto questo non incide sull’ordinamento civile, perché la pianificazione precede logicamente l’autonomia negoziale, limitandola solo indirettamente. Prima si autorizza, poi — eventualmente — si contratta. Il diritto non è più il fondamento dell’azione, ma ciò che resta dopo il filtro amministrativo.
Non è un equilibrio stabile. Ludwig von Mises lo aveva chiarito con nettezza: “L’interventismo non è un sistema stabile”. Ogni intervento genera nuove distorsioni e richiede nuovi interventi. La proprietà amministrata non è un punto di arrivo, ma una dinamica espansiva del potere, che si autoalimenta proprio perché non riconosce più limiti concettuali.
Il pronunciamento di cui si discute non è pertanto un incidente. È una conferma. Conferma infatti che l’ordinamento ha imboccato la strada dello Stato autorizzativo, in cui i diritti non vengono soppressi, ma resi esercitabili solo a condizione di conformità. La proprietà non è più una sfera di libertà da cui muovere, ma una funzione da giustificare. L’iniziativa economica non è più una presunzione, ma un’attività da qualificare. La libertà non viene negata: viene amministrata.
Ed è proprio qui il punto più inquietante. Quando tutto è interesse pubblico, nulla è davvero privato. E quando la Costituzione smette di proteggere la proprietà come limite al potere e la accetta come oggetto di regolazione permanente, il problema non è una legge regionale. È il modello di convivenza che, senza proclami e senza strappi, si sta imponendo sentenza dopo sentenza.
di Sandro Scoppa