venerdì 19 dicembre 2025
Il Piano Casa Ue non risolve la crisi: la normalizza e la trasforma in potere
Quando la politica definisce qualcosa un “diritto”, di rado lo protegge davvero: più spesso lo assorbe, lo regolamenta, lo sottrae alla disponibilità delle persone. È ciò che accade anche con il Piano Casa dell’Unione europea, denominato European Affordable Housing Plan, che fin dall’incipit dichiara di voler affrontare la crisi abitativa affermando ideologicamente: “Housing is not just a commodity, but a fundamental right and a cornerstone of human dignity - La casa non è solo una merce, ma un diritto fondamentale e un pilastro della dignità umana”. Una formula che può apparire rassicurante, ma che è in realtà carica di conseguenze. L’abitare viene sottratto alla sfera delle scelte individuali e ricondotto a quella dell’amministrazione pubblica.
La casa smette così di essere il risultato di lavoro, risparmio, investimento, rischio e scambio, per diventare un bene la cui fruizione deve essere garantita dall’autorità. È una trasformazione profonda, perché sposta il problema dall’economia al potere. Se la casa è un diritto, ogni vincolo, regolazione e limitazione diventano automaticamente giustificabili in nome della tutela. L’emergenza non va risolta: va gestita, stabilizzata, resa permanente.
Che la crisi abitativa esista è indubbio. I dati Eurostat parlano chiaro: tra il 2010 e il 2024 i prezzi delle abitazioni nell’Unione europea sono aumentati di oltre il 55 per cento, mentre i canoni di locazione sono cresciuti di circa il 27 per cento. In molte grandi città l’accesso alla casa è diventato proibitivo per fasce sempre più ampie della popolazione. Eppure, riconoscere il problema non significa averne compreso le cause. Ed è qui che il Piano Ue mostra tutti i suoi limiti.
Il documento si articola in quattro pilastri. Nel primo, dedicato all’offerta, si parla di “rimozione delle barriere” e di maggiore efficienza nel settore delle costruzioni. Ma i veri ostacoli restano accuratamente fuori campo: vincoli urbanistici rigidi, piani regolatori pensati per congelare il territorio, burocrazia edilizia paralizzante, tempi autorizzativi incompatibili con qualsiasi investimento razionale, pressione fiscale su chi costruisce e su chi affitta. Invece di rimuovere questi vincoli, la Commissione preferisce amministrarli, sostituendo la libertà con la procedura e l’iniziativa con il controllo.
Il secondo pilastro punta sulla mobilitazione di investimenti pubblici e privati attraverso nuove piattaforme europee. Tradotto: più pianificazione, più intermediazione politica, meno autonomia dell’investimento. Il capitale privato non è considerato una risorsa che valuta rischio e rendimento, ma uno strumento da incanalare secondo obiettivi decisi dall’alto. L’investitore non sceglie: viene “orientato”. Il risultato è una dipendenza crescente dal potere pubblico, che trasforma l’abitare in un settore semi-amministrato.
Il successivo terzo pilastro è forse il più rivelatore. La Commissione annuncia interventi sugli affitti brevi nelle aree “sotto stress abitativo”. In altre parole, nuove limitazioni all’uso legittimo della proprietà privata. Non considera che gli affitti brevi non sono la causa della scarsità, ma una risposta spontanea a mercati bloccati, offerta rigida e regolazioni soffocanti. Colpirli non aumenta il numero di abitazioni disponibili: riduce le alternative, scoraggia l’investimento e spinge ulteriore offerta fuori dal mercato regolare.
L’ultimo, il quarto pilastro, è quello che svela senza infingimenti la logica dell’intero Piano. Dietro la formula del “sostegno ai più colpiti” si concentra un insieme di interventi su gruppi vulnerabili, emergenza abitativa e homelessness che non mirano a rimuovere le cause della scarsità, ma a istituzionalizzarla. La casa non è più un bene da rendere accessibile ampliando l’offerta e liberando gli scambi, bensì un oggetto di presa in carico amministrativa, di assistenza continuativa e di redistribuzione guidata dall’alto. L’emergenza diventa così una condizione permanente, funzionale a legittimare un controllo stabile sull’abitare: non una risposta eccezionale a un fallimento, ma il nuovo assetto ordinario delle politiche pubbliche. In questo schema la scarsità non è un’anomalia da correggere, ma il presupposto stesso dell’intervento, e la tutela si trasforma nel veicolo attraverso cui l’autorità pubblica estende il proprio perimetro sulla proprietà e sulle scelte individuali.
Ed è proprio qui che emerge il nodo decisivo, che precede qualsiasi valutazione tecnica. Il problema di fondo, infatti, è concettuale prima ancora che economico. L’abitare nasce da conoscenze disperse – redditi, aspettative, preferenze, tempi, rischio, condizioni locali – che nessuna autorità centrale può raccogliere, ordinare e coordinare senza ridurle a schemi astratti, semplificarle e infine snaturarle. È per questo che, come ha ricordato Friedrich A. von Hayek, il riconoscimento dei limiti della nostra conoscenza dovrebbe indurci a una lezione di modestia, lasciando spazio alla collaborazione spontanea degli uomini liberi invece di pretendere di controllarla o dirigerla.
Il Piano Casa Ue ignora questa lezione elementare e scambia l’estensione del controllo per una soluzione. Non riduce le imposte, né semplifica radicalmente le regole, e neppure libera la costruzione o l’affitto. Al contrario, riveste di linguaggio neutro e tecnocratico una scelta politica netta: spostare l’abitare sotto la regia dell’autorità pubblica, trasformando i cittadini in destinatari passivi di politiche e il proprietario in un soggetto permanentemente condizionato, regolato, ispezionato, chiamato a giustificare l’uso stesso del proprio bene.
Da qui discende una conseguenza inevitabile. L’interventismo non si arresta mai al primo passo: ogni regolazione altera gli equilibri esistenti, genera nuove distorsioni e pretende nuove correzioni. Non è un incidente di percorso, ma una logica intrinseca, come ha osservato Ludwig von Mises quando ha spiegato che ogni intervento dello Stato nel funzionamento del mercato, se non viene immediatamente revocato, produce effetti tali da rendere necessario un intervento ulteriore. È una dinamica ben visibile anche nelle politiche abitative europee.
La casa – è bene ribadirlo – non è un diritto amministrato né un beneficio da distribuire. È il risultato di scelte responsabili, di rischio assunto, di capitale investito. Laddove questi elementi vengono messi tra parentesi, la crisi non viene superata: viene resa strutturale. E quando anche l’abitare diventa oggetto di pianificazione, il problema non è più la mancanza di case, ma l’eccesso di potere su di esse.
di Sandro Scoppa