venerdì 5 dicembre 2025
Ridefinire la proprietà delle riserve è un gesto simbolico: non cambia l’ordine monetario, ma rivela il desiderio della politica di piegare a sé un bene nato per limitarla, non per sostenerla.
Il dibattito sulla legge di bilancio 2026 ha riportato l’oro al centro della scena pubblica, non per ragioni economiche, ma per un impulso più profondo: la tentazione del potere di ridisegnare simbolicamente ciò che non può controllare nella realtà. L’emendamento che attribuisce allo Stato, “in nome del popolo italiano”, le riserve auree detenute dalla Banca d’Italia, pur riformulato come norma di interpretazione autentica dell’articolo 4 del Testo Unico Valutario, nasce da una premessa semplice quanto ambiziosa: che la moneta sia una creazione della politica, e che il suo ordine possa essere modificato attraverso dichiarazioni legislative.
La Banca Centrale Europea ha risposto con un pragmatismo quasi letterario, evidenziando che non è chiara la concreta finalità della proposta. Dietro tale rilievo si intravede una consapevolezza antica, simile a quella cui alludeva Goethe quando osservava che “nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo”. La politica monetaria, per sua natura, illude i governi di avere potere sulle dinamiche che la realtà economica rende irriducibili.
L’oro, nelle economie moderne, non è un tesoro statico, è una forma di memoria istituzionale: una riserva di fiducia costruita da generazioni di risparmiatori e operatori economici. È nato per difendere la moneta dalla politica, non per sostenere la politica attraverso la moneta. E proprio per dette ragioni la sua “proprietà” formale è meno rilevante della sua indisponibilità sostanziale.
In Italia, ogni volta che lo Stato ha tentato di correggere l’ordine monetario, lo ha fatto partendo dall’idea di poter controllare ciò che, in realtà, dipendeva da conoscenze disperse nel tessuto sociale. Nel 1926, ad esempio, l’illusione della “quota novanta” aveva tradotto un atto di volontà in un danno sistemico: un cambio rigido imposto a una economia che non possedeva i margini per sostenerlo. Un secolo prima, Manzoni aveva descritto con lucidità questa dinamica: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Anche nella moneta, il senso comune ̶ la percezione del valore ̶ è fragile, e non tollera imposizioni.
Nel secondo dopoguerra, poi, la riforma monetaria del 1947 ha sacrificato i risparmi privati sull’altare della stabilizzazione nominale, innescando un processo di sfiducia che ha richiesto anni per essere riassorbito. Non è stato un errore tecnico, piuttosto la conseguenza di un sistema che ha scambiato la ricchezza reale per un flusso da controllare amministrativamente.
Quando, nel 1992, l’Italia ha dovuto vendere una parte significativa delle proprie riserve auree per difendere la lira, ha pagato il prezzo di decenni di politica monetaria discrezionale, non dell’oro in sé.
Tali episodi hanno un tratto comune: l’idea che il potere disponga di una conoscenza superiore a quella incorporata nel mercato. È una forma di hybris politica: la convinzione che un’istituzione centrale possa sostituire l’ordine spontaneo degli scambi, delle aspettative e dei segnali di prezzo con un progetto coerente. Eppure, come ha ricordato Jorge Luis Borges con un paradosso: “L’universo (che altri chiamano la biblioteca) si compone di un numero indefinito e forse infinito di libri”. La realtà economica è una biblioteca, non una legge: troppo vasta perché qualcuno possa ordinarla dall’alto.
Il diritto europeo ha tradotto il richiamato principio in istituti giuridici puntuali: divieto di finanziamento monetario, interdizione alle interferenze politiche, subordinazione delle operazioni sensibili all’autorizzazione della Bce. Sono regole che, prima ancora di limitare il potere, ne riconoscono l’insufficienza: perché l’ordine del denaro, fondato su milioni di decisioni disperse, è più intelligente delle intenzioni dei governi.
Nel quadro così delineato, l’emendamento italiano appare superfluo se innocuo, e rischioso se finalizzato a costruire un presupposto normativo per una futura rivendicazione di controllo. Perfino la Bce, nel suo parere, ammette che il Trattato non utilizza la nozione di “proprietà” delle riserve, proprio perché la proprietà giuridica è irrilevante se non è accompagnata dal potere di disporre. La distinzione tra titolo e uso è ciò che difende la libertà economica dall’arbitrio: si può scrivere che l’oro appartenga al popolo, ma non si può usarlo in suo nome senza distruggere ciò che tutela il popolo.
Questa tensione tra possesso nominale e possibilità concreta di intervento rivela una verità essenziale dei sistemi monetari moderni: il valore dell’oro non è nella sua disponibilità fisica, ma nella sua capacità di limitare la discrezionalità politica. È una forma di vincolo istituzionale, non una riserva da mobilitare. Ogni tentativo di trasformarlo in leva per la spesa pubblica sovverte la sua natura, come se una diga venisse vista non come barriera, ma come serbatoio da svuotare.
Da qui discende la logica per cui la moneta, come ha scritto Shakespeare nel Mercante di Venezia: “Non è ciò che appare, ma ciò che fa apparire”. Non vale per sé stessa, bensì per l’ordine che genera. L’oro, oggi, è prezioso non perché possa risolvere i problemi dello Stato, ma perché impedisce allo Stato di scaricarli sulla società attraverso l’espansione monetaria o l’erosione del valore.
La libertà economica nasce da limiti chiari: limiti al potere di tassare, di spendere, di creare moneta. L’oro è uno di questi limiti. Non rappresenta ciò che la politica possiede, esprime ciò che non deve possedere. In un tempo in cui la tentazione della discrezionalità è forte, e la politica monetaria appare una scorciatoia permanente, l’oro continua a esercitare la sua funzione più antica: ricordare che esiste una realtà che resiste alla volontà.
E che nessuna dichiarazione, neppure la più solenne, può mutare l’ordine invisibile che regge le scelte umane.
di Sandro Scoppa