giovedì 27 novembre 2025
Un emendamento vorrebbe portare l’aliquota dal 2,5 per cento al 12,5 per cento e riaprire dieci anni di contratti: un miliardo di arretrati pronto a scaricarsi sugli assicurati.
Nel pieno della discussione sulla Manovra 2026, è spuntato un emendamento che rischia di trasformare l’Rc Auto in uno dei campi di battaglia fiscali più confusi e onerosi degli ultimi anni. La proposta prevede infatti un aumento dell’imposta sulle polizze “infortunio del conducente” collegate all’Rc Auto, che farebbe salire l’aliquota dal 2,5 per cento al 12,5 per cento e, soprattutto, applicherebbe la stessa aliquota anche ai contratti stipulati e già pagati negli ultimi dieci anni. Una retroattività che non ha nulla di tecnico: è invece un intervento che punta a ricavare quasi un miliardo di euro dal passato, oltre ai cento milioni annui che maturerebbero a regime.
La misura non riguarda dunque un dettaglio amministrativo, ma un cambio di regole che interviene sui rapporti già chiusi, sui premi già corrisposti e su un’interpretazione che lo Stato stesso aveva fornito nel 1983, quando il ministero delle Finanze aveva chiarito che a quelle polizze si applicava l’aliquota ridotta.
Per quarant’anni quella lettura non è stata mai contestata. Poi, negli ultimi anni, l’Agenzia delle Entrate Lombardia ha iniziato a sostenere che l’interpretazione fosse sbagliata, aprendo un contenzioso che oggi il Parlamento tenta di “chiudere” con un colpo di spugna normativo.
Il punto centrale è che le compagnie assicurative sono sostituti d’imposta: se la norma verrà approvata, dovranno saldare l’arretrato e potranno rivalersi sui clienti. In altre parole, i cittadini rischiano di pagare un’imposta che ritenevano definitivamente assolta, solo perché oggi si ritiene errata un’aliquota applicata in base a una circolare dello Stato stesso. Non esiste settore economico che possa reggere un simile modo di procedere, basato non sulla certezza delle regole ma sulla loro riscrittura retroattiva.
Gli analisti di Intermonte — la principale società italiana di ricerca finanziaria indipendente, con una lunga esperienza proprio nei settori bancario e assicurativo — nelle valutazioni riportate in questi giorni dalla stampa più accreditata, hanno osservato che l’aumento dell’aliquota potrà forse essere trasferito sui premi futuri e assorbito gradualmente dal mercato. Il vero punto critico, però, rimane la retroattività: un miliardo di euro che nessuna compagnia aveva motivo di accantonare, perché per quarant’anni l’aliquota del 2,5 per cento è stata applicata seguendo una precisa indicazione datata 1983 del ministero delle Finanze. Né la possibilità di versare le somme “senza sanzioni né interessi” cambia la sostanza: si tratta comunque di un recupero che scarica sugli operatori privati le conseguenze di un’interpretazione amministrativa rimasta incontestata per decenni.
Il settore assicurativo ha già annunciato ricorsi. E non potrebbe essere diversamente: la vicenda non riguarda solo l’aliquota di una specifica polizza, investe piuttosto il principio generale per cui lo Stato può rimettere in discussione il passato quando ritiene di aver bisogno di risorse aggiuntive. Una dinamica che mina alla radice il legittimo affidamento e che, soprattutto, non tutela gli assicurati. L’Rc Auto è già oggi obbligatoria e costosa: secondo gli ultimi dati, Napoli e Caserta restano le province con i premi più elevati, e qualunque aggravio fiscale non potrà che peggiorerà la situazione.
Il paradosso è che una manovra dovrebbe offrire certezza e programmazione; qui accade l’opposto. Il legislatore non risolve la confusione normativa nata da un’interpretazione dell’Age, ma la cristallizza in un aumento di imposta esteso al passato. E così la politica utilizza la retroattività fiscale per estrarre gettito, non per garantire equità.
La questione, come appare evidente, non è tecnica: riguarda l’idea stessa di ordine giuridico. Un Paese in cui le regole fiscali possono cambiare dieci anni dopo, e in cui i contratti già chiusi vengono riaperti per decreto, è un Paese che scoraggia l’iniziativa, aumenta i costi e induce gli operatori economici a difendersi anziché investire. In questo quadro, gli assicurati diventano l’anello debole: non possono scegliere se assicurarsi o meno, non possono contestare retroattività che non dipendono da loro, e non possono neppure sottrarsi a un meccanismo che usa una tassa obbligatoria come leva di finanza pubblica.
La Manovra avrebbe potuto imboccare la strada opposta: chiarire le norme, ridurre l’incertezza, limitare l’arbitrio interpretativo, dare un quadro stabile agli operatori. Invece propone un’imposta moltiplicata per cinque, retroattiva, e fondata su una disputa iniziata più di quarant’anni fa. È difficile immaginare un modo peggiore per aggravare i costi dell’Rc Auto e per peggiorare un settore già fragile.
Chi guida (e non soltanto chi guida), non ha bisogno di nuove tasse: ha bisogno di regole chiare, di premi proporzionati al rischio, di un sistema che non cambi dopo aver pagato. La retroattività fa il contrario: distrugge la fiducia, riduce la prevedibilità e, alla fine, ricade tutta su chi non può sottrarsi a un obbligo di legge. È l’ennesima conferma che, in Italia, la tentazione di guardare al passato per fare cassa è più forte dell’impegno a costruire un futuro meno opaco.
di Sandro Scoppa