Il Sud che forma, l’Italia che incassa

venerdì 14 novembre 2025


La formazione pagata nel Mezzogiorno e spesa altrove diventa un travaso di ricchezza che svuota i territori e rafforza i sistemi più competitivi.

C’è un treno che dal Sud parte ogni giorno. Non trasporta merci, non porta turisti: porta via futuro. Il nuovo rapporto Censis–Confcooperative, “Sud, la grande fuga”, non racconta solo un insieme di statistiche, è piuttosto la radiografia di una sottrazione continua e silenziosa, che nel tempo ha assunto i tratti di una normalità accettata. Il Mezzogiorno investe, il resto del Paese – e sempre più l’estero – incassa. Una redistribuzione involontaria, non deliberata, che priva il Sud proprio delle risorse che potrebbero rilanciarlo.

I numeri sono impietosi. Nel 2024, 13.000 giovani laureati hanno superato i confini nazionali; altri 23.000 hanno scelto il Centro-Nord. In totale, 36.000 persone altamente formate. Ciascun percorso di studi, dalle elementari alla laurea, costa 112.000 euro: un capitale di oltre 4 miliardi che il Sud trasferisce ogni anno altrove, senza ricevere nulla in cambio. Non c’è sistema economico che possa sopravvivere a lungo se vede defluire così tanta energia produttiva: è come svuotare un bacino idrico mentre si tenta di riempirlo con secchi bucati.

La mobilità universitaria è il preludio del fenomeno. Da anni, migliaia di studenti meridionali scelgono atenei centro-settentrionali. Roma, Milano, Torino, Bologna non sono solo città più grandi: sono ecosistemi accademici e professionali dove esiste un rapporto più diretto tra studio e opportunità. Nel 2023/2024, solo Roma ha attratto quasi 33.000 studenti provenienti dal Sud. Ed è una migrazione che non si limita alla didattica: è infatti già una proiezione verso contesti dove il mercato del lavoro funziona, dove i tempi sono certi, dove i percorsi meritocratici esistono realmente.

Di fronte a tutto ciò, il costo per il Sud è duplice. Da un lato, 157 milioni in meno nelle casse degli atenei meridionali; dall’altro, 277 milioni di rette incassate da quelli del Centro-Nord. E in mezzo, le famiglie meridionali che pagano un differenziale di 120 milioni l’anno per mandare i figli lontano. È un meccanismo paradossale: si spendono più risorse per finanziare il rafforzamento di sistemi già forti, indebolendo ulteriormente i territori più fragili.

Il nodo più critico riguarda i laureati nelle discipline Stem. Nel Mezzogiorno rappresentano appena il 22,4 per cento del totale nazionale, ben al di sotto del peso demografico dell’area. È un dato che fotografa una carenza strategica: senza competenze tecniche e scientifiche non si costruiscono filiere innovative, non si attraggono investimenti internazionali, non si sviluppano startup competitive. È un limite che si traduce in minori opportunità per i giovani e quindi in maggiore propensione a partire. È un circuito vizioso: meno opportunità, più fuga, meno crescita.

Ma la fuga dei cervelli non è riducibile al solo mercato del lavoro. È la risposta razionale a un ambiente dove le regole frenano più di quanto non permettano. Burocrazia asfissiante, infrastrutture insufficienti, ritardi amministrativi, politiche spesso assistenziali e incapaci di creare condizioni di libertà effettive: tutto contribuisce a rendere la scelta della partenza non solo comprensibile, ma inevitabile. La mobilità giovanile non è un problema: lo diventa quando assume i contorni di una fuga determinata dall’assenza di possibilità.

Il Mezzogiorno non è povero: è frenato. È ricco di talenti, competenze, iniziativa privata, creatività diffusa. Troppo spesso però queste energie trovano più ostacoli che incentivi. Chi vuole fare impresa deve affrontare percorsi interminabili; chi vuole investire si scontra con vincoli e incertezze; chi vuole innovare trova contesti ostili o statici. E mentre altrove la crescita si alimenta grazie alla concorrenza delle idee, qui l’amministrazione continua a credere che trattenere significhi controllare.

Non servono nuovi piani centralizzati, né l’ennesima distribuzione di fondi pubblici. Servono condizioni sistemiche: tempi rapidi, istituzioni affidabili, certezza delle regole, apertura ai capitali, incentivi alla competizione, università capaci di misurarsi su scala internazionale. Il capitale umano non si trattiene con decreti, ma eliminando quegli ostacoli che rendono più conveniente andarsene.

La domanda allora è inevitabile: quanto ancora il Sud può sostenere una perdita simile? E soprattutto: cosa accadrebbe se il Mezzogiorno potesse finalmente liberare la sua energia? Perché in realtà non mancano i segnali che mostrano quanto potente potrebbe essere il risveglio di un territorio liberato dagli ostacoli. Le esperienze di alcune città che hanno scelto di “aprire” più che “gestire” lo dimostrano: dove si crea spazio all’iniziativa, si generano ritorni spontanei.

Il futuro del Mezzogiorno non dipenderà da quanti fondi riceverà, ma da quanti giovani sceglieranno di restare – o persino di tornare. E questo accadrà solo quando il territorio smetterà di essere un luogo da cui partire e diventerà un luogo in cui costruire. La vera sfida non è invertire la fuga, è invece creare un contesto in cui nessuno debba più fuggire per realizzare il proprio talento.

Finché questo non avverrà, le regioni del Sud continueranno ad essere il grande investitore non riconosciuto dell’Italia: forma, paga e regala i suoi migliori talenti agli altri. Ed è un lusso che, semplicemente, non può più permettersi.


di Sandro Scoppa