venerdì 14 novembre 2025
È vero, nelle città ad alta vocazione turistica, è diventato difficile, se non impossibile, trovare un’abitazione in locazione a un canone compatibile con il reddito prodotto: dai lavoratori subordinati, dai piccoli imprenditori e dai lavoratori autonomi. È anche vero che i prezzi degli affitti sono una conseguenza dell’alto costo delle case. La risposta al problema non può essere quella di aumentare l’imposizione fiscale sugli affitti brevi. Gli immobili sono già super tassati con l’Imu. E gli immobili che sono censiti al catasto non è possibile evadere la patrimoniale che su di essi incombe. Neanche una legge che facilità il recupero degli immobili da parte dei proprietari, nei casi di morosità degli inquilini, indurrà gli stessi a locare gli immobili di propria proprietà. Ci sarà sempre un’eccezione di qualche giudice che consentirà agli inquilini di differire sine die il rilascio degli appartamenti ai legittimi proprietari. Da liberale e liberista considero la proprietà un bene intangibile e quindi i proprietari ne devono poter disporre come meglio credono nei loro interessi. Chi ha investito nel mattone aveva già pagato le imposte sulle somme accantonate per l’acquisto del bene reale per eccellenza. Il primo investimento a cui pensano i giovani che hanno trovato una stabile occupazione è l’acquisto della prima casa.
Se il Belpaese è la nazione dove è più alta in Europa la percentuale di proprietari dell’abitazione principale è dovuto a legislazioni speciali in materia di edilizia economica e popolare che ne hanno facilitato l’acquisto. Le leggi di riferimento sono: la 167 del 1962 che istituisce i piani di zona; la legge 865 del 1971 che estende le norme e disciplina la convenzione con i comuni; e la legge 422 del 1968 che ne disciplina i finanziamenti. I terreni venivano espropriati dai comuni per pubblica utilità e gli stessi venivano assegnati in diritto di superficie per 99 anni alle cooperative edilizie. Esistevano, altresì, norme specifiche per gli appartenenti alle forze dell’ordine e dei militari che si costituivano in cooperative edilizie a proprietà indivisa. La legge prevedeva mutui a lungo termine che coprivano fino al 100 per cento del costo di realizzazione degli alloggi per i soci cooperatori. I finanziamenti bancari erano garantiti oltre che da ipoteca di primo grado sull’immobile anche da una garanzia pubblica rilasciata dall’allora Ministero del Tesoro. In caso di inadempienza da parte delle cooperative edilizie mutuatarie e di messa in liquidazione coatta amministrativa della società mutualistica, la proprietà passava agli Iacp (Istituto autonomo case popolari).
Inoltre, tutti gli enti previdenziali, assicurativi pubblici, e le compagnie di assicurazione del ramo vita private dovevano investire parte dei contributi e delle polizze assicurative nella costruzione di immobili ad uso residenziale da concedere in locazione con possibilità di futuro riscatto della proprietà da parte degli inquilini. Addirittura nel 1949 venne costituita la Gescal (Gestione case per lavoratori) che venne soppressa nel 1973. A tutti i lavoratori dipendenti veniva fatta una trattenuta obbligatoria dello 0,35 per cento dello stipendio o del salario che alimentava il fondo del Piano Ina casa. La raccolta dei fondi Gescal venivano utilizzati per costruire alloggi popolare da dare in affitto ai dipendenti con possibilità futura per gli stessi inquilini di riscattare la proprietà dell’alloggio in cui vivevano in locazione. Un plauso al governo che ha intenzione di rilanciare un nuovo Piano casa.
Lo stesso vale per il presidente dell’Anci (Associazione italiana comuni italiani), il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi (eletto in quota Cinque stelle e Pd), che nell’assemblea che si è svolta a Bologna il 12 novembre scorso, ha anch’egli sottolineato l’esigenza di “un piano casa quinquennale” per far fronte all’emergenza abitativa. A mio avviso, il nuovo Piano casa dovrebbe mutuare l’esperienza storica maturata a partire dal 1949 (Gescal) e le leggi 167/1962; la 865/1971 e 422/1968. Il fine ultimo era quello di rendere possibile e accessibile l’acquisizione della prima casa per i lavoratori. Se i soldi pubblici, che sono stati sprecati con il superbonus 110 per cento, fossero stati impiegati per rilasciare garanzie sui mutui per le costruzioni di case realizzate in cooperativa edilizie, si sarebbe fatto un enorme passo avanti per risolvere l’emergenza abitativa. Ovviamente, il problema delle costruzioni di nuove case è di difficile soluzione se continuano a persistere una normativa per il rilascio dei permessi a costruire che lascia discrezionalità agli uffici tecnici di frapporre ostacoli di ogni tipo.
Mi è stata, a tal proposito, segnalata la paradossale situazione in cui dieci amici costituiscono una piccola cooperativa edilizia per costruire in economia dieci unità abitative di circa 50 metri quadrati ciascuna, in una importante cittadina nei pressi di Roma, dove andare ad abitare. Comprano in cooperativa il terreno edificabile oltre dieci anni fa, convinti di poter costruire in poco tempo. L’area dopo l’acquisto diventa zona a rischio idrologico e quindi viene sospesa la possibilità di presentare il progetto per la costruzione. Dopo anni l’area viene finalmente declassata come rischio idrologico. Il progetto di costruzione della piccola palazzina, per sicurezza, deve prevedere solo una sopra elevazione da terra di 70 centimetri. Tuttavia, ogni qual voltala cooperativa edilizia è in procinto di stipulare la convenzione urbanistica propedeutica alla edificazione, il “nuovo” dirigente dell’ufficio tecnico richiede nuove prescrizioni, in precedenza non previste, che comportano ulteriori costi e dilatano i tempi di ritiro del permesso a costruire. Se non viene fatta una legislazione speciale per le cooperative edilizie senza fine di lucro, ogni tentativo di risolvere il problema dell’emergenza abitativa resterà purtroppo sulla carta!
di Antonio Giuseppe Di Natale