La casa sospesa: quando lo Stato ferma il mercato

mercoledì 12 novembre 2025


Il blocco degli affitti a Riyadh in Arabia Saudita come paradigma del dirigismo moderno

Quando un governo decide di congelare i canoni di locazione per cinque anni, non interviene solo sull’economia: interviene sulla libertà. È quanto ha fatto l’Arabia Saudita, imponendo dalla fine di settembre 2025 un blocco quinquennale agli aumenti di affitti residenziali e commerciali nella capitale. Un provvedimento presentato come misura di giustizia sociale, ma che in buona sostanza riflette la logica più antica e pericolosa del potere: quella di sostituire la volontà individuale con la pianificazione politica.

Si potrebbe pensare che ciò che accade a Riyadh ci riguardi poco. In realtà, è esattamente il contrario. Il Paese del Golfo, con il suo ambizioso piano “Vision 2030”, è divenuto uno degli epicentri della nuova economia globale. I fondi occidentali investono nei suoi progetti urbani, gli architetti europei costruiscono i suoi grattacieli e gli organismi internazionali osservano le sue politiche come modelli di sviluppo. Le decisioni di Riyadh non restano confinate nel deserto: influenzano i mercati, gli investimenti e, soprattutto, le idee. Il che comporta che, quando una potenza emergente che si presenta come motore della modernità sceglie di congelare per decreto i prezzi delle locazioni, offre al mondo un precedente politico: la dimostrazione che anche l’autoritarismo può travestirsi da protezione sociale.

Le autorità saudite hanno giustificato il blocco con l’aumento dei canoni del 25 per cento in un solo anno, sostenendo di voler “garantire equilibrio e stabilità”. Ebbene, dovrebbe essere ormai acquisito che l’equilibrio non si impone per legge: nasce dal confronto fra interessi, dal calcolo libero di chi offre e di chi domanda. Quando lo Stato decide quale debba essere il prezzo di un bene, esso smette di appartenere al cittadino e diventa un pezzo dell’apparato pubblico. La casa, da diritto di proprietà, si trasforma in un diritto amministrato, sottoposto al permesso e al controllo del potere.

Ed è proprio in siffatta trasformazione che il blocco dei canoni rivela la sua natura: ciò che viene presentato come atto di equità si traduce, in pratica, in una negazione della proprietà privata. L’affitto non è un privilegio, è invece il prezzo del tempo, del rischio e della cura che il proprietario assume nel mettere a disposizione un bene. Impedirgli di adeguarlo significa imporgli una perdita e trasferire per legge il peso economico su una sola parte del contratto. È l’identico meccanismo che, in altri tempi, ha distrutto l’edilizia privata in Italia e in Europa: basti ricordare “l’equo canone”, che doveva proteggere gli inquilini e finì per svuotare interi quartieri, riducendo l’offerta, peggiorando la qualità degli immobili e scoraggiando chi voleva investire.

Dietro ogni misura di questo tipo si nasconde un presupposto collettivista: che la proprietà non sia un diritto, bensì una concessione. È la stessa idea che anima, sotto altre forme, le patrimoniali periodicamente invocate, le limitazioni agli affitti brevi, le normative che trasformano il proprietario in un soggetto sospetto da controllare. Lo Stato che decide i prezzi non redistribuisce ricchezza: la congela. Impedisce alla società di evolvere, sostituendo la fiducia con il controllo e la responsabilità individuale con l’obbedienza fiscale.

Bloccare i canoni significa immobilizzare anche la qualità degli immobili, scoraggiare nuove costruzioni, ridurre l’offerta e, alla lunga, far salire ancora di più i prezzi. È l’effetto osservato ovunque siano stati introdotti limiti amministrativi: dalla New York del dopoguerra alla Berlino del 2020, dove il “Mietendeckel”, salutato come strumento di giustizia sociale, ha paralizzato il mercato e cancellato migliaia di abitazioni disponibili. Quando il potere promette stabilità, lascia dietro di sé solo scarsità.

La vera giustizia, in materia di casa, nasce dalla libertà. Lasciare che i prezzi riflettano la domanda e l’offerta significa rispettare la conoscenza diffusa, quella che nessun burocrate può sostituire. La funzione dello Stato dovrebbe limitarsi a garantire la certezza dei contratti, la tutela giurisdizionale e la trasparenza, non a determinare il valore dei beni. La libertà non è comoda: è rischiosa, talvolta ineguale, nondimeno resta l’unica condizione che consente agli individui di adattarsi, innovare, migliorare.

Il congelamento degli affitti nella capitale saudita, in apparenza un provvedimento locale, è invece un simbolo universale: dimostra come anche nei contesti che si proclamano moderni sopravviva la tentazione di controllare. È il riflesso di un paternalismo che attraversa culture e latitudini, e che riaffiora ogni volta che la libertà produce risultati sgraditi al potere. Un’economia immobilizzata per decreto può sembrare stabile, ma è solo l’immobilità di un sistema che ha smesso di respirare.

Quando un governo stabilisce il prezzo di una casa, limita il valore di un diritto. E nel momento in cui un diritto viene amministrato, la libertà arretra. A Riyadh, come altrove, l’equilibrio non nasce dal controllo, ma dalla fiducia: la fiducia che gli individui, lasciati liberi di contrattare, sappiano trovare un punto d’incontro migliore di qualsiasi decreto.


di Sandro Scoppa