L’oro degli italiani nel mirino del Leviatano

venerdì 7 novembre 2025


Dopo il risparmio e la casa, ora si guarda all’oro: l’amministrazione pubblica non riduce sé stessa ma punisce chi ha risparmiato, trasformando la prudenza in colpa.

Tra le ipotesi allo studio per la prossima legge di bilancio emerge un nuovo prelievo che ha già acceso il dibattito: una tassa sui lingotti e sulle monete d’oro detenute dagli italiani, con un gettito stimato fino a due miliardi di euro. Secondo quanto riportato dalla stampa, la misura consentirebbe ai possessori di “affrancare” l’oro fisico, regolarizzandone il valore mediante un’imposta sostitutiva compresa tra il 12,5 per cento e il 18 per cento. Nelle intenzioni ufficiali si tratterebbe di una semplice operazione di trasparenza, volta a far emergere plusvalenze latenti e a reperire risorse per la manovra 2026. Ma dietro il linguaggio tecnico si intravede la solita tentazione: quella di trasformare il risparmio privato in un’estensione del bilancio pubblico, trattando la prudenza come sospetto e la proprietà come disponibilità del potere.

È in questo momento del resto che il potere mostra la sua vera natura: quando, invece di amministrare, tenta di appropriarsi. L’oro, simbolo di sicurezza e di libertà economica, diventa improvvisamente un colpevole da punire. Non si tassa la produzione, quale il mero possesso. È ovviamente il riflesso di un sistema che non distingue più tra ricchezza creata e ricchezza custodita, e che punisce la stabilità perché non riesce a generarla.

Non è comunque un fenomeno nuovo: la letteratura ci ricorda quanto sia antica questa tendenza. In Papà Goriot, il vasto affresco della società francese post-napoleonica, Honoré de Balzac descrive il borghese che accumula oro per difendersi da un potere ingordo e mutevole. A sua volta, Charles Dickens, ne Il Circolo Pickwick, ironizza su un fisco che, in nome della giustizia, finisce per perseguitare chi lavora e risparmia. In entrambi i casi, l’oro è simbolo di libertà concreta: non l’idolo dell’avarizia, bensì il baluardo contro l’arbitrio. Quando il potere pretende di amministrarlo, la libertà si dissolve.

Ed è proprio qui che il parallelo con il presente diventa evidente. Colpire l’oro significa colpire la fiducia. Chi ha scelto di custodire i propri risparmi in un bene tangibile lo ha fatto secondo regole precise. Cambiare ora quelle regole equivale a riscrivere il contratto sociale in corso d’opera. È il segnale che tutto ciò che ha valore ˗ denaro, immobili, risparmi ˗ può essere espropriato per decreto. Non è una politica fiscale: è un atto di sfiducia verso i cittadini.

Dietro la retorica “dell’emersione dei valori latenti” si nasconde in sostanza una verità imbarazzante: la spesa pubblica è fuori controllo, e l’amministrazione statale, incapace di ridurre sé stessa, preferisce colpire chi ha risparmiato. La tassazione patrimoniale diventa così una tassa sulla prudenza. È più facile punire chi ha conservato che tagliare ciò che si spreca.

Non è la prima volta che ciò accade. Ogni volta che il potere, di fronte alle proprie difficoltà, sceglie la via più semplice ˗ attingere al risparmio privato invece di riformare sé stesso ˗ finisce per minare le basi economiche e morali della società. La storia offre esempi eloquenti di siffatto fallimento. Nel 1797, ad esempio, la Repubblica di Venezia, nel disperato tentativo di finanziare il proprio esercito, requisì oro e argento ai cittadini: in breve tempo le casse si svuotarono e, insieme al denaro, evaporò la fiducia del popolo. Ogni volta che l’autorità confonde il risparmio privato con un bene pubblico, il risultato è identico: la fuga dei capitali, la contrazione degli investimenti, la perdita di fiducia nel futuro.

L’Italia, maestra di prelievi “una tantum” divenuti permanenti, sembra non imparare mai. Dalla patrimoniale del 1992 al contributo di solidarietà, ogni intervento eccezionale si è trasformato in abitudine. Ora l’obiettivo è l’oro, un bene che non produce reddito ma rassicura chi non crede più nelle promesse del potere. Il paradosso è evidente: si colpisce proprio ciò che testimonia la sfiducia verso il potere pubblico e gli apparati statali, aggravandola ulteriormente.

Nel linguaggio della libertà, il risparmio è una virtù civile. È la capacità di provvedere a sé stessi senza chiedere, di costruire una sicurezza personale indipendente dall’assistenza pubblica. Quando il potere punisce questa virtù, afferma implicitamente che l’indipendenza economica è una colpa. Non si tassa per equità, lo si fa per controllo.

L’oro degli italiani non è un “tesoro nascosto”: è il simbolo di una fiducia residua nell’autonomia individuale. Tassarlo significherebbe sancire la definitiva subordinazione dell’individuo al potere fiscale. È l’ennesimo passo verso una società in cui la ricchezza privata è vista come un’anomalia, e non come la condizione stessa della prosperità collettiva.

Ogni epoca ha avuto il suo modo di spogliare i cittadini: la requisizione in tempo di guerra, l’inflazione programmata, la patrimoniale d’emergenza. Oggi il metodo è più elegante ma non per questo meno invasivo. Si parla di “adeguamento”, di “affrancamento”, di “armonizzazione”. Nondimeno, la sostanza è identica: la libertà viene ceduta in cambio della promessa di stabilità.

Chi possiede oro non rappresenta un privilegio da correggere: è un esempio da comprendere. È la dimostrazione che la fiducia individuale, e non l’assistenzialismo pubblico, è il vero motore dell’economia. Quando il Leviatano decide che anche questo deve essere tassato, non difende la giustizia: protegge solo la propria sopravvivenza.

L’oro, che da millenni accompagna la storia della civiltà, è sempre stato il simbolo di ciò che l’autorità politica non può creare né distruggere con un decreto. È per questo che la teme. Ed è per questo che chi crede nella libertà deve difenderlo: non come metallo, ma come principio.


di Sandro Scoppa