Il miraggio spagnolo della libertà abitativa

sabato 11 ottobre 2025


Crescono gli investimenti e si moltiplicano gli affitti flessibili, ma il “modello spagnolo” non è una rivoluzione liberale: è solo una parentesi di mercato tollerata dallo Stato.

Negli ultimi anni, in Spagna si è diffuso con rapidità il cosiddetto flex living, o “affitto flessibile”: abitazioni arredate, contratti brevi, servizi aggiuntivi come pulizie, coworking, palestre, e un’impostazione più vicina all’ospitalità che alla locazione tradizionale. È la risposta del mercato, che come sempre si ordina spontaneamente, alla crescente domanda di mobilità e autonomia, soprattutto da parte di studenti, lavoratori temporanei e professionisti stranieri. A Madrid, Barcellona, Valencia e Malaga gli edifici destinati a questa formula si moltiplicano.

Secondo Idealista, gli investimenti nel settore hanno superato i seicento milioni di euro, trainati da un accordo tra JP Morgan e Grupo Lar per la realizzazione di cinquemila posti letto. Il gruppo GMP, con il fondo sovrano di Singapore, ha investito 140 milioni in due progetti a Madrid, mentre El Economista, uno dei principali quotidiani economici spagnoli, segnala che Stoneweg ha avviato cantieri per oltre settecento milioni nel residenziale, con forte attenzione alle unità flessibili. Per Ejeprime, testata specializzata nel mercato immobiliare, il valore complessivo degli investimenti nel flex living ha superato i 330 milioni nel primo semestre, arrivando a circa quattro miliardi considerando i progetti in corso.

Eppure, dietro la retorica della “nuova frontiera della libertà abitativa”, la Spagna resta lontana da un autentico modello aperto e liberale. L’affitto flessibile prospera non per effetto di una riforma, ma perché sfugge, almeno per ora, alla rete di regole che imprigiona il resto del mercato. È il successo di ciò che non è stato ancora vietato.

Invero, è dato piuttosto rilevare che, dietro i numeri da record si nasconde un Paese che soffoca l’iniziativa privata sotto la burocrazia urbanistica. In tal senso vi è che a Barcellona, come ha scritto El País, le restrizioni alle nuove costruzioni e la lentezza delle licenze rendono quasi impossibile riconvertire aree dismesse in residenziali. In molte comunità autonome le amministrazioni impongono vincoli, obblighi di edilizia “sociale”, limiti all’uso turistico e perfino divieti di destinazione abitativa. Il governo centrale ha poi scelto la via opposta alla libertà: tassare gli affitti brevi e “trasformare” 53.000 alloggi turistici in affitti permanenti, come riferito da Huffington Post España. Non si tratta di liberalizzazione, ma dell’ennesima redistribuzione forzata.

Il flex living si è dunque sviluppato non grazie allo Stato, bensì nonostante lo Stato. La sua forza risiede proprio nell’assenza di norme specifiche: le parti regolano liberamente rapporti, servizi e durate. Come sempre, quando la politica non interviene, la cooperazione volontaria torna a produrre risultati. Tuttavia, si può ipotizzare che si tratti di una tregua precaria. Infatti, ha denunciato El Diario, che alcuni governi locali, come quello di Madrid, hanno già iniziato a coinvolgere il settore pubblico, assegnando lotti comunali a operatori privati e promuovendo direttamente le nuove residenze: segno evidente che il potere non tollera a lungo ciò che sfugge al suo controllo.

Intanto la Spagna vive una grave crisi abitativa. Cadena SER, principale rete radiofonica del Paese, ha documentato che mancano circa settecentomila abitazioni rispetto alla domanda. I canoni sono cresciuti del 10,5 per cento in un anno, e in molte città venti persone competono per ogni stanza disponibile. L’interventismo ha così aggravato il problema: la legge sui limiti agli affitti in Catalogna ha ridotto la redditività dei proprietari e disincentivato la locazione, senza aumentare l’offerta.

Il mercato spagnolo vive quindi una contraddizione: il suo settore più vitale è anche il meno regolato, sebbene ogni segnale di successo risvegli l’istinto dello Stato di intervenire, come se la libertà economica fosse una minaccia e non una risorsa. È la stessa logica che attraversa l’Europa, e pure altri Paesi del mondo, dove la libertà sopravvive solo per eccezione e non per principio. L’affitto flessibile dimostra, invece, che la spontaneità funziona: quando le persone possono scegliere, il mercato trova equilibrio e crea valore; quando la politica impone vincoli, genera scarsità e conflitto.

Non bisogna mai dimenticare che gli investitori non chiedono sussidi, ma regole certe; i costruttori non invocano privilegi, chiedono soltanto di poter operare liberamente; i proprietari non cercano favori, rivendicano il diritto di disporre dei propri beni. Chi costruisce o affitta non è un avversario della collettività, ma uno dei protagonisti del benessere comune. Questo nuovo modello abitativo non rappresenta un’innovazione sociale, bensì il sintomo di una libertà che, anche nei sistemi più ingessati, riesce a riaffiorare non appena lo Stato arretra.

Il rischio è che la politica, fedele alla propria vocazione dirigista, finisca per ingabbiare anche questa esperienza, come già accaduto con gli affitti brevi, con l’edilizia privata e con la proprietà immobiliare. Se ciò dovesse accadere, la Spagna tornerebbe rapidamente a quel modello di pianificazione e controllo che ha impoverito intere società. Perché solo il mercato, quando è davvero libero, può emancipare le persone dall’arbitrio del potere e restituire alla casa ‒ e a chi la possiede ‒ il suo autentico valore di libertà.


di Sandro Scoppa