Informazione o propaganda? La stampa che vive di Europa

mercoledì 8 ottobre 2025


Un miliardo in dieci anni per media e agenzie. Ma la libertà nasce senza sussidi

Un miliardo di euro in dieci anni. È la cifra che, secondo il rapporto Brussels’s Media Machine curato da Thomas Fazi per MCC Brussels (giugno 2025), le istituzioni europee hanno destinato a giornali, agenzie e televisioni. Non si tratta di episodi isolati, ma di un sistema strutturato che vale circa 80 milioni l’anno, attraverso bandi, partenariati e programmi di comunicazione. La giustificazione ufficiale parla di “rafforzare il pluralismo”, di “contrastare la disinformazione” e di “sostenere l’integrazione europea”. In realtà il rischio è che la linea di confine fra informazione e propaganda diventi sempre più labile.

Non è un fenomeno esclusivamente italiano, anche se nel nostro Paese non mancano esempi eloquenti: l’agenzia Ansa ha beneficiato di oltre 5 milioni, la Rai di 2 milioni, Il Sole 24 Ore di 1,5 milioni più progetti ad hoc, la Repubblica e il gruppo Gedi di circa 190 mila euro, Internazionale di 180 mila, Domani di 100 mila. Lo schema è comunque identico in tutta l’Unione: in Francia l’Agence France-Presse, in Spagna EFE, in Germania DPA hanno ricevuto finanziamenti, spesso per produrre contenuti che “spieghino i benefici della coesione europea”. A livello continentale, Euronews ha incassato oltre 20 milioni all’anno, diventando di fatto una cassa di risonanza dell’Ue.

La questione non è nuova. Nella storia europea, i governi hanno spesso cercato di imbrigliare la stampa con sussidi e privilegi. Già nel Settecento, molti Stati concedevano monopoli tipografici per premiare la fedeltà politica. Nell’Ottocento, poi, la Francia dei Borbone e successivamente quella del Secondo Impero usavano i “fondi segreti” per comprare giornalisti compiacenti. In Italia, i governi liberali furono tentati da pratiche simili, mentre il fascismo fece un salto di qualità con l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti e con il controllo diretto delle testate.

Il modello comunitario è meno brutale, ma non meno problematico. Quando la Commissione affida a un quotidiano un progetto da centinaia di migliaia di euro per raccontare quanto sia efficace la politica di coesione, non serve imporre linee editoriali: l’effetto è più sottile, e forse più insidioso. La prospettiva di ottenere nuovi bandi basta a rendere accomodanti. È quella che Fazi definisce “relazione semi-strutturale”: un legame continuativo che orienta senza dover dettare ordini.

Non sorprende allora che la medesima Commissione abbia investito anche nella rete europea di fact-checking (Edmo), con almeno 27 milioni spesi per progetti che spesso coincidono con campagne pro-Eu. Così, chi riceve fondi per smascherare le fake news ha anche il compito di diffondere messaggi positivi sull’Unione. Tuttavia, quando controllore e controllato coincidono, il sospetto è inevitabile: chi stabilisce cosa sia disinformazione e cosa critica legittima?

Esistono precedenti che dovrebbero mettere in guardia. Negli Stati Uniti, il Committee on Public Information durante la Prima guerra mondiale aveva l’obiettivo di “mobilitare l’opinione pubblica” attraverso giornali, cinema e radio. In Unione Sovietica, la Pravda e l’Izvestija erano la voce ufficiale del partito, e il monopolio informativo fu uno strumento decisivo per mantenere il potere. L’Europa di oggi non è certo l’Urss, ma l’idea che il potere politico possa finanziare la stampa per orientarne la narrazione resta pericolosa.

A ben vedere, il problema è duplice. Da un lato, i cittadini europei pagano con le proprie tasse la costruzione di un racconto favorevole a chi gestisce quelle stesse risorse. Dall’altro, il giornalismo rischia di trasformarsi da cane da guardia a custode del consenso. Ogni volta che il rapporto fra giornale e lettore viene sostituito dal rapporto fra giornale e sovvenzionatore pubblico, si rompe l’indipendenza.

La libertà di stampa è nata nel Vecchio continente quando i tipografi e i giornalisti hanno rivendicato autonomia economica e culturale. Dall’Inghilterra del Bill of Rights fino alle grandi battaglie ottocentesche contro i dazi sulla carta e sulla stampa, l’indipendenza editoriale è stata conquistata liberando i giornali dal potere, non legandoli ad esso. È questa lezione che rischiamo di dimenticare.

Come ha ricordato Ludwig von Mises: “Una stampa libera può esistere solo laddove esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione. In una repubblica socialista, dove tutte le risorse e i macchinari di stampa sono di proprietà del governo, la questione di una stampa libera non si pone nemmeno”.

A sua volta, Friedrich A. von Hayek ha ammonito: “Chiunque controlli l’intera attività economica controlla i mezzi per tutti i nostri fini e deve quindi decidere quali di questi fini devono essere soddisfatti e quali no… Il controllo economico non è solo il controllo di un settore della vita umana, il quale possa venir separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere realizzati, quali valori debbano venir considerati come superiori e quali inferiori: in breve, cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare”.

Due avvertimenti forti e appropriati che suonano oggi come un richiamo: la libertà non si protegge distribuendo fondi pubblici o prebende, ma lasciando che l’informazione viva del consenso dei suoi lettori, non delle risorse del potere che dovrebbe sorvegliare.


di Sandro Scoppa