Il sarto di Stato: quando la moda diventa un’impresa pubblica

venerdì 3 ottobre 2025


Dietro la retorica del “sostegno al made in Italy” si nasconde la tentazione di dirigere un settore che vive, prospera e si rinnova solo grazie alla libertà d’impresa

La moda italiana è un capolavoro di creatività, estetica e intraprendenza. È nata nei laboratori artigianali e cresciuta nelle botteghe, si è imposta a livello mondiale grazie all’ingegno individuale, non per decreto. Eppure, a ogni crisi reale o presunta, lo Stato, e per esso il ceto politico, torna a immaginarsi come il nuovo stilista dell’economia. Così, il recente via libera del Senato a due emendamenti al disegno di legge sulle Pmi, presentati come strumenti per “rafforzare la filiera del made in Italy”, ripropone l’antico vizio nazionale di confondere la libertà d’impresa con la tutela pubblica.

Le modifiche approvate, che riducono da tre a un milione di euro la soglia minima degli investimenti incentivati e ampliano la platea delle imprese beneficiarie del Fondo per la crescita sostenibile, vengono salutate come una conquista. In realtà, rappresentano l’ennesimo passo verso un comparto statalizzato, sostenuto artificialmente da sussidi, incentivi e regolazioni. È la vecchia idea, tanto rassicurante quanto pericolosa, oltre che premoderna, che un settore possa essere “salvato” dall’intervento politico invece che dal mercato.

Si dice che lo scopo sia “rafforzare l’autonomia produttiva” e “valorizzare le eccellenze italiane”. Invero, un’industria diventa autonoma non perché riceve finanziamenti pubblici, bensì perché riesce a stare sul mercato, a innovare, a conquistare i consumatori. Spesso si parla del Fondo per la crescita sostenibile come di uno strumento chiave per sostenere le imprese italiane, nondimeno va ricordato che si tratta di un fondo pubblico, alimentato da risorse statali destinate a finanziare investimenti considerati strategici. Ogni euro distribuito da questo Fondo non nasce dal nulla: proviene dalle tasse e dai contributi prelevati da chi, in altri settori, crea valore reale senza alcun sostegno statale. Si perpetua così la logica del privilegio, quella per cui chi è più abile nel dialogare con i ministeri ottiene più di chi sa parlare al mercato.

Il principio di selezione naturale dell’impresa, fondato sulla concorrenza e sulla capacità di rispondere alla domanda, viene di conseguenza sostituito dalle scelte della politica: vengono premiate le categorie ritenute meritevoli, le aziende che rispettano criteri “strategici” fissati dai funzionari pubblici e quelle che utilizzano “semilavorati italiani o europei”. In nome della “sostenibilità”, si introduce così una nuova forma di protezionismo che penalizza chi si approvvigiona sul mercato globale e favorisce chi si adegua al dettato burocratico.

Non si tratta quindi di sostenere l’economia dell’eleganza italiana, quanto di imbrigliarla, in un reticolato politico-burocratico. Le norme che pretendono di “valorizzare” la filiera finiscono così per limitare la libertà di scelta di imprese che, da sempre, costruiscono la loro forza proprio nella flessibilità, nella capacità di adattarsi e di attingere alle migliori risorse, ovunque si trovino. Il made in Italy non è nato da una filiera autarchica, ha avuto origine in una cultura cosmopolita che ha saputo coniugare estetica, tecnica e scambio internazionale.

Eppure, mentre il successo è sempre derivato, e deriva tuttora, da questa libertà di movimento e di contaminazione, il legislatore sembra procedere in direzione opposta.

In tal senso si muove infatti il nuovo articolo 19-bis, inserito nel disegno di legge annuale per le piccole e medie imprese, attualmente in discussione in Commissione Industria del Senato, che istituisce un “regime di certificazione unica di conformità delle filiere produttive”. In apparenza, la misura punta a garantire “trasparenza e tracciabilità” delle produzioni. In realtà, rappresenta un ulteriore passo verso la burocratizzazione del comparto: la qualità e la credibilità delle imprese non saranno più determinate dal giudizio dei consumatori, ma da quello di un ente pubblico. La certificazione unica – il sogno di ogni burocrate – è un modo elegante per dire che il valore dell’impresa sarà stabilito non dal mercato, bensì dall’amministrazione. L’abito, da opera di creatività, rischia così di trasformarsi in un documento amministrativo.

In un momento in cui l’industria del fashion italiano soffre per la contrazione dei consumi e la concorrenza globale, lo Stato sceglie di moltiplicare regole e timbri invece di restituire libertà e liquidità. Il vero problema non è la mancanza di incentivi, è in verità l’eccesso di adempimenti: burocrazia, fisco, costo del lavoro, lentezza della giustizia civile. È lì che si gioca la sopravvivenza delle imprese, non nella capacità di compilare moduli per accedere a un fondo pubblico.

Dietro l’illusione del “sostegno alla filiera” si cela dunque un’idea paternalistica dell’economia: lo Stato come stilista, il ministro come direttore creativo, l’imprenditore come semplice esecutore. È la negazione stessa di quel principio che ha reso grande il capitalismo italiano: la libertà di creare senza chiedere permesso.

In tempi difficili, il Governo e il Parlamento possono e devono ridurre gli ostacoli, non disegnare le rotte. Ogni legge che pretende di “indirizzare” la produzione, “certificarla”, “coordinarla” sottrae spazio a quella spontaneità che è l’anima stessa del gusto e dell’impresa. Se davvero si vuole aiutare il made in Italy, occorre ricordare che la bellezza non nasce per decreto, ma dalla libertà.

Come ha ammonito Frédéric Bastiat , uno dei pochi economisti capaci di cogliere il legame profondo tra creatività e libertà: “Lo Stato è la grande finzione attraverso la quale tutti cercano di vivere a spese di tutti”. E con analoga lucidità Oscar Wilde ha osservato: “L’arte non ha alcun scopo pratico. Non si può spiegare. Non deve dimostrare nulla”.

A voler leggere entrambe le frasi in controluce, emerge un messaggio chiaro: la moda non ha bisogno di legittimazioni ministeriali, perché il suo valore risiede nell’intuizione, non nella conformità. E, per continuare a essere arte e industria insieme, deve restare fuori da quella finzione.


di Sandro Scoppa