venerdì 12 settembre 2025
Il prezzo delle case non nasce da un presunto valore oggettivo, ma dalle scelte di chi domanda e offre. Il resto è solo ideologia
Il dibattito sul cosiddetto caro affitti sembra destinato a tornare ciclicamente, come una malattia cronica che il Paese non riesce a curare. E oggi, con la riapertura delle università, le immatricolazioni e il ritorno di migliaia di studenti nelle città, la polemica si accentua ancora di più: titoli indignati, proposte di tetti ai canoni, richiami alla “giustizia sociale” nel mercato della casa. Lo schema è sempre lo stesso, ma dietro questa retorica di mera facciata si nasconde un presupposto tanto diffuso quanto errato: l’idea che esista un valore “reale” dell’affitto, misurabile in base al lavoro incorporato negli immobili. È l’eco di una concezione arcaica, la teoria del valore-lavoro, che attribuiva il valore di un bene al tempo e allo sforzo necessari per produrlo. Secondo questa visione, il prezzo giusto di una casa dovrebbe riflettere i costi storici della sua costruzione e della sua manutenzione: come se gli anni trascorsi, i mattoni posati e le ore di lavoro degli operai potessero ancora oggi determinare quanto un inquilino è disposto a pagare. È un ragionamento seducente perché sembra offrire una misura oggettiva dell’equità.
Ma è anche profondamente illusorio. Se fosse vero, un vecchio edificio di periferia, costruito con grande fatica manuale, dovrebbe valere più di un moderno appartamento in centro città realizzato con tecniche veloci e meccanizzate. Nella realtà accade esattamente il contrario: l’affitto dipende dalla domanda, dalla posizione, dai servizi circostanti, non dal numero di braccia che hanno sollevato mattoni decenni prima. Non è difficile capire perché questa mentalità persista. Richiamarsi al “valore-lavoro” permette di accusare i proprietari di speculazione, di presentare l’affitto come un guadagno ingiustificato, di invocare l’intervento pubblico come riequilibrio necessario. In realtà, dietro lo slogan del caro affitti si nasconde la tentazione di tornare a un modello teorico che la scienza economica ha già da tempo superato, e che nella pratica ha prodotto solo fallimenti. Già dalla seconda metà dell’Ottocento, la rivoluzione marginalista di Carl Menger, William Stanley Jevons e Léon Walras ha mostrato che il valore non è incorporato nelle cose, dipende invece dall’utilità che ciascun individuo attribuisce loro. Un appartamento non vale perché sia costato fatica a costruirlo, ma perché risponde al bisogno di chi desidera viverci. Il prezzo di mercato è il risultato di milioni di scelte, non di un calcolo astratto sulle ore di lavoro. La teoria soggettiva del valore ha così confutato quella classica, mostrando come la scarsità relativa e le preferenze individuali determinino i prezzi. Nonostante ciò, la mentalità del valore-lavoro continua a riaffiorare, soprattutto quando si parla di affitti.
È la stessa logica che ha prodotto esperimenti fallimentari come l’equo canone, che per anni ha congelato i prezzi delle case in Italia: risultato, meno alloggi disponibili, meno manutenzione, più contratti in nero. Gli esempi storici abbondano. A Berlino, il Mietendeckel introdotto nel 2020 ha ridotto l’offerta e innalzato il mercato parallelo, prima di essere bocciato dai giudici. A Barcellona, i limiti agli affitti turistici hanno prodotto scarsità senza fermare l’aumento dei prezzi. A New York, i regimi di rent control hanno trasformato la città in un caso emblematico: pochi fortunati vivono da decenni in appartamenti a prezzi irrisori, mentre chi arriva oggi paga cifre esorbitanti o non trova nulla. Sono tutti esempi che dimostrano come i controlli, anziché proteggere gli inquilini, finiscano per danneggiarli. Se la domanda cresce e l’offerta resta ferma, i prezzi salgono: è un meccanismo elementare che nessuna legge può cancellare.
Gli studenti che cercano stanze nelle città universitarie, i turisti che affollano i centri storici, le famiglie che scelgono di vivere in metropoli dinamiche piuttosto che in periferie spopolate: sono loro, con le loro decisioni, a determinare il livello degli affitti. Parlare di caro affitti come di una “ingiustizia” significa semplicemente non voler vedere la realtà. Il vero problema, infatti, non è che i canoni crescano, ma che l’offerta sia troppo rigida. Burocrazia, vincoli urbanistici, fiscalità penalizzante, incertezza giuridica scoraggiano chi potrebbe investire in nuove abitazioni o ristrutturare quelle esistenti. La strada non è imporre tetti e controlli, è al contrario quella di liberare il mercato: semplificare le procedure edilizie, ridurre le tasse, rendere del tutto flessibili i contratti. Solo così gli alloggi aumentano e i prezzi si stabilizzano. Continuare a ragionare in termini di valore-lavoro significa restare prigionieri di un’illusione che giustifica politiche dannose.
Il mercato non è un’arena di sfruttamento, ma il luogo in cui domanda e offerta si incontrano per dare risposte concrete ai bisogni. Come ha scritto Carl Menger, il fondatore della Scuola austriaca di economia: “Non è corretto usare l’espressione valore per indicare un bene che ha valore per un soggetto economico oppure per definire cose reali, come se il valore fosse qualcosa di oggettivo. Soltanto i beni sono oggettivi, il valore è qualcosa di essenzialmente diverso, un giudizio degli uomini intorno all’importanza che la disponibilità di certi beni ha per la conservazione della loro vita. Il considerare oggettivo il valore dei beni, che è viceversa soggettivo per sua natura, è stato motivo di confusione nei princìpi della scienza economica”.
di Sandro Scoppa