martedì 1 luglio 2025
Sguardi liberi e riflessioni su idee, potere, società
a cura di Sandro Scoppa
n. 3/2025 Orwell contro Mises, due idee inconciliabili di libertà
George Orwell è spesso celebrato come campione della libertà contro ogni totalitarismo, critico dei regimi comunisti e fascisti, narratore del potere che opprime e sorveglia. Tuttavia, da una prospettiva liberale, il suo pensiero è attraversato da forti contraddizioni e da un’antipatia persistente verso il libero mercato e la proprietà privata. Nelle sue opere più note – “1984”, “La fattoria degli animali”, ma anche nei saggi – denuncia con efficacia l’oppressione statale, ma non mostra mai apprezzamento per l’ordine spontaneo della società civile. Anzi, diffida dell’economia di mercato e manifesta ostilità verso il capitalismo. In un articolo del 1944, What is Socialism?, afferma che “l’economia pianificata è indispensabile” e che “il socialismo implica l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione”. È il segno di una visione paternalistica, in cui la libertà politica dovrebbe essere garantita da uno Stato che controlla l’economia: un’illusione pericolosa, come ha mostrato la storia.
Ludwig von Mises, all’opposto, ha chiarito che la libertà politica non può esistere senza libertà economica. In “Azione umana” ha infatti sostenuto che dove non esiste un mercato libero, non c’è libertà. Per lui, il mercato non è solo efficiente: è il fondamento della cooperazione pacifica. Ogni tentativo di pianificazione centralizzata, anche se benintenzionato, finisce per restringere le scelte individuali e rafforzare il potere coercitivo dello Stato.
Il narratore britannico ha intuito i meccanismi del potere, ma non ciò che rende la libertà sostenibile: proprietà privata, meccanismo dei prezzi, dispersione della conoscenza. Nei suoi scritti manca la consapevolezza dell’impossibilità epistemica del socialismo, già dimostrata nel 1922 dallo scienziato austriaco nell’opera “Socialismo”. Senza prezzi reali, non esiste orientamento razionale delle risorse. Non è un’opinione: è logica.
Socialista dichiarato, Orwell pensava fosse possibile coniugare uguaglianza economica e libertà politica. Ma questo progetto si scontra con un limite strutturale: qualunque sistema che voglia redistribuire ricchezza e condizioni in modo egualitario deve concentrare potere. E un potere che distribuisce, inevitabilmente seleziona, decide, impone. Il diritto si piega alla discrezionalità, e la libertà perde il suo fondamento. Nel mondo di 1984, l’oppressione non è solo fisica, ma linguistica e mentale. Tuttavia, l’autore inglese non riconosce che uno Stato economicamente onnipresente – come quello auspicato in nome del socialismo – ha bisogno proprio di quegli strumenti per sopravvivere: censura, conformismo, repressione della spontaneità. Chi controlla il pane, controlla anche il pensiero.
Il pensatore della Scuola Austriaca, invece, ha difeso l’individuo imperfetto ma libero. Ha respinto le utopie egualitarie e messo in guardia contro ogni ingegneria sociale. L’unico ordine compatibile con la libertà nasce dal basso, dall’interazione volontaria tra individui sovrani. Il suo liberalismo è coerente, realistico, non sentimentale. Quello dell'autore britannico, se di liberalismo si può parlare, è emotivo, contraddittorio, incapace di affrontare le conseguenze delle proprie premesse.
di Redazione